Un popolo di #Formiche

Ecco i brani tratti dalle lettere di Tommaso Fiore a Piero Gobetti per giocare a #Formiche con TwLetteratura.

_Zeta_ - Ears and Trulli

Dal 19 al 22 aprile TwLetteratura – con la collaborazione di @AngelaCino, @atrapurpurea, @eli4never e @ExLibris2012, – dedica quattro giorni di lettura su Twitter alle lettere del meridionalista pugliese Tommaso Fiore a Piero Gobetti, scritte negli anni ’20, pubblicate solo nel 1951 da Laterza e oggi pressoché introvabili. Leggi le regole del gioco e il calendario degli incontri.

Il libro

Nel 1925 Piero Gobetti chiede a Tommaso Fiore di raccontare la Puglia su “Rivoluzione liberale”. Fiore si mette in viaggio, scrive e racconta dei contadini della Murgia e di Metaponto, dei poveri quartieri di Taranto e di Lecce l’armoniosa. Dà voce alla caparbietà e alla tenacia dei pugliesi. Tommaso Fiore conduce un’analisi attenta dell’ascesa del fascismo in Puglia, ma è soprattutto attento a decifrare le ragioni economiche e sociali che impediscono alla sua terra di progredire ed emanciparsi dal centralismo dello Stato. E nel farlo, Fiore si addentra nei paesi e nelle città descrivendoli in primo luogo con occhi di geografo. Ed è proprio a questi occhi che, con l’hashtag #Formiche, daremo luce e voce insieme su Twitter.

Domenica 19.04.2015 – Lettera del 15 gennaio 1925 [La Puglia] – #Formiche/01

Anzitutto la Puglia è un’espressione archeologica. La nostra vita fu. Pochi risalgono alla Magna Grecia, ma a Federico II e ai suoi castelli, a Barisano da Trani, alla cattedrale di Troia ed a Nicola de Apulia pare che ci si pensi spesso. Per quel che io sappia, molti stranieri, negli ultimi vent’anni, hanno frugato nel nostro passato, insieme con parecchi del paese; non so chi si sia occupato di andare a vedere le cantine di Cerignola, i pomodori di Palagiano, le verdure precoci del Leccese o che so io, i metodi di pesca di Molfetta, i marmi del Gargano. Il problema dell’irrigazione, per dirtene una, è ancora oggi quasi allo stato mitico, se non che sento dire che lo abbia avocato a sé l’Acquedotto Pugliese; io che, ultimo arrivato, due o tre anni fa, per dovere di ufficio, mi affiancai ai pochi che se ne occupano, fui gratificato dagli amici delle più argute barzellette.

Tu devi dunque sapere che la Puglia, più ancora che per questi suoi sforzi di redenzione economica, è conosciuta pel suo passato, bello o brutto, ma ben passato e perciò venerando fin nei suoi cocci rotti. Avrai sentito parlare anche a Torino dei nostri trulli, diamine! Tu però forse non sai che la zona dei trulli ad Alberobello è stata dichiarata monumentale, né più né meno che la passeggiata archeologica di Roma. Ma io, ad Alberobello, di memorando, di eccezionale, di veramente monumentale non ci ho trovato che la laboriosità dei contadini e degli agricoltori. E… quanti si sono occupati di far qualcosa per questa salda gente di Alberobello, di Conversano e vicinanze? Di qui anzi è quel giovine deputato socialista, Di Vagno, che tre anni fa fu ammazzato come un cane, di pieno giorno, in una piazza, senza che l’opinione pubblica nazionale se ne commovesse gran che; cosa perfettamente logica in regime feudale. Or dunque moviamo anche noi verso questi paesi, confondendoci con la folla: questo viaggio è di prammatica.

Lunedì 20.04.2015 – Lettera del 15 gennaio 1925 [Alberobello] – #Formiche/02

Tommaso FioreIl paese dei trulli, Alberobello, si trova sulla costa del monte Zampino, a 416 metri. Si sale, ma non si riesce a vederne: ai due lati della provinciale le case moderne danno l’impressione di lindura e di operosità di cittadine vicine, Castellana e Putignano, per esempio, dove subito dopo il ’60 fu tentata la nuova vita industriale, prima che altrove. Ecco ora la piazzetta, ben composta, con un minuscolo monumentino pei Caduti ed un minuscolo obelisco, che, se non fosse la riverenza, i monelli scalzi potrebbero arrampicarvisi. Ma qui non ci sono monelli, o almeno, quanto a riverenza, potrebbero dare dei punti ai grandi che, per l’inaugurazione, pronunciarono i discorsi di rito; né questi ragazzetti, come in troppe parti da noi, si servono del lastricato come di moccichino, ma van pulitini e ben calzati, con le loro cartelle, serii, compresi del loro compito ed anche più orgogliosi, si vede subito, della loro cittaduzza, che è grande e famosa presso tutti, e non mostrano molta curiosità per questi forestieri. Bisogna senz’altro sperare nei nostri figli: noi abbiamo fatto la guerra; chi sa che essi non facciano qualcosa di più grande, la libertà.

Per la larga strada che volge a destra ed è chiusa armonicamente da una maestosa cattedrale moderna, con due bei campanili aguzzi, vado in cerca di un mio amico, un esemplare piuttosto raro della specie meridionale, homo metaphysicus. A proposito, leggo in questi giorni ancora delle considerazioni a riguardo: non si tratta più del sangue germanico del grande ducato di Benevento, ma della solidarietà selvaggia delle nostre lande, su cui spunterebbero, come i nostri campanili, i nostri filosofi. Alla buon’ora! Naturalmente per una cittadina così bene ordinata, il mio telegramma aspetta di essere recapitato e sono io stesso che, gira e rigira, riesco a pescarlo e m’incarico di recarlo a destinazione. Una contadina linda ed intelligente mi accompagna: voltiamo a destra, fra i trulli, finalmente!

Si allineano irregolarmente, ai due lati della minuscola strada tutta pulita, le casettine basse, sulla base non più rotonda ma rettangolare, ben salda, proporzionata, col piccolo tetto di «chiancarelle» a portata di mano, che vien voglia di saltarci su, per vedere che dice la gente. Porticine con sopra un arco aguzzo, formato di tre pietre, e tenute accuratamente chiuse per il sole, alte appena quanto un uomo; finestrini così, all’altezza del fianco, con la minuscola tendina bianca, dietro il vetro, ricamata. Stradette laterali anche più piccole, ed ecco le donne m’invitano ad entrare in casa, a vedere, con una franchezza anche superiore a quella pur comune quaggiù, che è grandissima; colei che mi accompagna mi avverte che le case non sono di dentro come di fuori, e vuol dire che nell’interno la pulizia vi è massima; ed io che lo so, mi affretto a sorridere.

Il mio filosofo è in campagna e suo padre mi guida. Giù a valle, dovunque l’occhio si spinge, fino alla selva di Fasano, altro sommo miracolo di laboriosità umana biancheggiante sull’orizzonte, c’è agglomeramenti di trulli, collicelli a terrazze, grigio di petrame, verde pallido d’ulivi, querce e noci gigantesche. La casetta che mi ospita è, non occorre dirlo, una casa di contadini, autentica, ma sembra l’opera meticolosa di Giapponesi. Dovunque, per terra, sui muri intonacati, al palco, splendore di pulizia, di decenza; cuscini bianchi sui cassettoni, tendine nitide per ogni vano, per ogni passaggio; mobili di quercia, porte graziosamente dipinte di grigio, noce e verdino; tutto misura e proporzione, agio, tranquillità. Sono questi i nostri cafoni, cui lo Stato non vuole ancora riconoscere diritto di vita politica. Su di un tavolo, innanzi allo specchio, trovo uno Shakespeare. Viene dall’America, come indubbiamente l’America ha dato al nostro contadiname una sveltezza ed uno spirito d’iniziativa, che quaggiù non avrebbe mai acquistato, ma il libro è di loro e serve per loro, per le ragazze di casa, ché il mio amico tiene i suoi filosofi accatastati in un angolo remoto, per lui solo.

Il podere, come più o meno tutti gli altri, ha dinanzi a sé un cortile con peschi, susini, gelsi, querce, pergole, edere, fiori; a un lato la piccola aia ricinta da un muretto basso, ad un angolo il pozzetto che raccoglie l’acqua dei tetti; ed anche qui tutto è in ordine, tutto è pulito, scopato e spazzato or ora. Gli altri trulli servono per cucina, per forno, per pagliaio, per pollaio, per ovile, per stalla, ognuno per la sua cosa, e nulla manca, nessun locale disturba o comunica sudiciume all’altro. Le donne escono ed entrano, silenziose e guardinghe come suore, richiudendo subito, lucenti come api. Sono nate qui, come le loro mamme; alcune hanno anche negli occhi la visione dell’Oceano e di New York; i figli ci andranno, probabilmente, ché ogni sera se ne parla, ma quanto a loro, dopo tanto vagare, non desiderano altro.

[…]

Questi trulli devono la loro diffusione alla ferocia dei tempi e alla bestialità feudale: non essendo permesso di fondar città senza speciale autorizzazione regia, nel 1600, il conte di Conversano, il famoso Guercio, noto per sue infamie di cui ancora qui si novella, permise queste costruzioni rustiche ai suoi servi, per poterle «sgarrare» in poche ore, ad ogni ispezione governativa. Così i contadini, che usavano la pietra tratta dai fondi messi a coltivo solo per qualche rozzo capanno contro le intemperie, presero ad amarla, ad apprezzarne la forma e l’economicità, e ne perfezionarono le costruzioni con vero talento. Ma non so quali altri uomini della terra avrebbero compiuto le opere prodigiose di questi villani negli ultimi trent’anni, contro ogni avversità.

Martedì 21.04.2015 – Lettera di luglio 1926
 [Lecce] – #Formiche/03

Lecce, l’armoniosa, è l’unica città non solo di Puglia ma di tutto il Mezzogiorno, in cui i palazzi e le pietre e le strade e i cortili e le loggette e le finestre e fin le abitazioni più umili abbiano serbato l’antico carattere storico, spiccatamente artistico. Se la disposizione di essa nei meandri delle vie, nelle piazzette, nei parchi è medioevale e normanna, l’apparenza è in tutto secentesca e berniniana, con ricchezza di ornamenti e statue e di motivi architettonici pieni di effetti pittorici e di stranezze geniali; senonché i moderni hanno aggiunto o slargato molti punti portando più sole, più verde di giardinetti e di viali all’intorno e grazia di ville e ovunque maestà di monumenti, richiami di busti e medaglioni senza numero. E se a Taranto, a Bari, a Trani, dovunque da noi, sono qua e là belle cose per eccezione, a Lecce ogni momento bisogna fermarsi per istrada; è un piacere fermarsi, perché c’è qui una casettina fiorita, dove sarebbe bello abitare, qui una finestretta terrena, con fogliame, che è un momento di vita che non muore, qui loggette aperte, «mignani», sostenuti da belle mensole e da balaustre, che andrebbero bene, tanto è la loro grazia, nella città del sogno. Mi accompagna un mio vecchio amico pittore, di questi luoghi, che lamenta le costruzioni moderne e le deturpazioni dell’antico, che pur qui sono tante, e con lui vado a zonzo, ché va goduta così questa città, inebbriandosi di luce e di arte, abbandonandosi all’inaspettato. Per fortuna, egli non si ferma soltanto dinanzi ai grandi monumenti. E a me par di smarrirmi, passata la grande via della stazione, fra viuzze brevi, tortuose, bitorzolute, sotto case asimmetriche, rimpetto a scorci originali e bizzarri, mentre dovunque fioriscono piccole aiuole, e un vecchio androne inerbito t’invita ad inoltrarti e un semiabbandonato interno aggiunge alla sua fastosità una nuova malìa di romanticismo. Ma dove sono i palazzi famosi, che accolsero le lascivie cattoliche, dove le chiese destinate all’ostentazione dell’orgoglio? Entrando da Porta San Biagio, in via dei Perroni, ecco subito palazzo Lubelli, quello del famoso scudo angolare con drago a sette teste, e col rude muro in giro, cui sovrastano archi sforzati, del quale oggi, ad un anno di distanza, non trovo che le macerie! Caratteristico di tutte le costruzioni leccesi e della provincia è il grande portone, in cui la cornice gira lo scomparto della porta formando un grandioso arco nel rettangolo e incorniciando un bellissimo scudo. Del palazzo Rossi, che fa angolo di fronte alla chiesa di San Matteo, di un bellissimo barocco, osserviamo l’armonico innesto fra portone e balcone e le decorazioni di svegliata fantasia, poi il loggiato angolare con mensole che girano dolcemente da una strada all’altra, formando un angolo originale, anche questo caratteristico della nostra arte. La grandiosa chiesa di San Matteo, col contrasto di linee fra un piano e l’altro, sembra al mio amico borrominiana e nei dettagli michelangiolesca. Per via D’Aragona si presenta palazzo Chiara, oggi V. Emanuele; settecentesco, non meno bello, se pur meno grandioso, di palazzo Rossi: di caratteristico ha il portone con tre mensole, una centrale, le altre due laterali e dolcemente piegate sul muro. Saltiamo, come troppo ben noto, palazzo Vernazza, a via Conti di Lecce, in piazzetta della Zecca, del più bel cinquecento, ma ahi! il più deturpato, e siamo a palazzo d’Arpe, il meglio conservato, col portone bugnato che immette nell’atrio elegantemente barocco, dalla scala signorile, con archi e balaustrate. Nel palazzo dei Conti di Lecce, dalla linea grandiosa, lo spazio fra la cimasa dei balconi e il cornicione è un po’ distante, e l’artista ha saputo ben riempirlo con un’apertura quadrilobare, formando così un terzo piano che è invece tettoia. In via Libertini troviamo il bellissimo palazzo Andreatta, barocco, sconciato da un terzo piano moderno, a scopo industriale. Non originale ma signorile appare il palazzo Romano, anch’esso barocco, mentre il cinquecentesco palazzo Ungaro, pur racconciato, serba la linea e l’eleganza dei dettagli. Seguono poi il Vescovado, il Seminario, il ricovero di Sant’Anna, quest’ultimo fra reminescenze berniniane con una scalinata grandiosa in piccolo spazio. Per via Palmieri passiamo dal palazzo Spada, con colonne e squame, che reggono un grandioso balcone. Seguono palazzo Palmieri, oggi del duca Guarini, poi palazzo Bernardini Marrese, oggi Rollo, sfarzoso, spagnolesco, caratteristico al sole, che fa emergere le ombre delle ricche cariatidi che sostengono i balconi. Ammirato, in piazza Arco di Trionfo, lo straordinario palazzo Guarini e, di nuovo, il sobrio e severo palazzo Lubelli, eccoci, per via Umberto, al più bel palazzo di Lecce, quello Personè: facciata bugnata, portone elegantissimo, quattro finestre per piano con colonne-pilastri che sostengono un’elegante cornice; nello spazio rettangolare ogni finestra ha ricchi intagli cinquecento, fatti ad imitazione dei bellissimi ornati del Sansovino in S. Maria del Popolo a Roma. Il palazzo Conte Zecca, berniniano, mostra un atrio veramente signorile, in cui attacca una sontuosa scala. Nel caratteristico palazzo di Prefettura, le colonne dell’atrio sono state accompagnate da pilastri che non sciupano; i capitelli, uno diverso dall’altro, sono scolpiti con grande maestria. Originalissima è l’annessa S. Croce, cinquecentesca nel piano inferiore e così ben fusa col seicento della parte superiore, così bene armonizzata nei pesanti dettagli e bene intonata, che riesce fantastica e leggera nella sua esuberante larghezza. Segue l’edificio più italiano di Lecce, S. Irene, del più bel nostro Rinascimento…

In accordo con questo scenario, una popolazione, come ho detto, vivace, sensibile, fine, ospitale. Lecce, cosa singolare per noi meridionali, non ha affatto contadini; la sua gente perciò rappresenta il fiore di questa eleganza. Altrove ci saranno storici, musicisti, architetti, poeti, politici uguali o maggiori; vivono isolati, a Bari sconosciuti al pubblico dedito al commercio, a Foggia fin anche a se stessi; nessuna delle nostre città s’interessa quanto Lecce alle manifestazioni di arte e di cultura, a tutte le forme di vita dello spirito. Qui la Scuola Artistica è veramente popolare, qui mostre, esposizioni, conferenze di ogni genere e di ogni colore, ricerche scientifiche o storiche o archeologiche, acquisti di musei e di gabinetti, giornali e stampe di carattere locale, qui, incoraggiamento per i giovani, diffuso mecenatismo, spesso riverenza affettuosa pei vecchi. L’arte, come nelle epoche primitive, nasce ancora dal popolo, e qui sono innumerevoli da due secoli i poeti dialettali, più o meno culti, più o meno poeti, ma tutti a contatto della vita delle strade e dele piazze, di cui ritraggono i mille aspetti. L’amore per la musica vi è antico di più che due secoli, nei quali ha dato prove brillanti di sé.

Le arti della cartapesta e della creta, dei santi e dei pupi, sorte due secoli fa, si volsero spontaneamente, verso il ‘48, ai pupazzetti: caricaturisti furono con tutta naturalezza barbieri – mastro Patera e don Alfonso – e giovani passati poi all’arte, quali Bortone, come il Maccagnani, che vi è venuto dalla cartapesta direttamente; e mostrarono malizia e signorilità, e tutta la vita leccese passò ridendo e burlando attraverso queste forme d’arte, in cui di rado si riesce un individuo, quasi mai un popolo. Il ceto togato, poi, è qui veramente eccezionale, e non esistono professionisti, nemmeno graffiacarte, che non discutano, bene o male, di Maccagnani, di Lupiae, del Castello di Carlo V, delle idrie del Museo Provinciale, di Maria d’Enghien, e che non abbiano pretese di buon gusto e di cultura più che professionale, fino a raggiungere, talvolta, vere qualità letterarie. Qualunque teoria, qualunque idea si può venire ad esporla quaggiù, sicuri di trovare un pubblico desideroso d’informarsi, che ascolta sempre con perfetto senso delle convenienze, e discute anche, e come! Così avviene che, da secoli, si aggira rasente piazza S. Oronzo, per via degli Scarpari e alle Quattro Spezierie, dove si tagliano via dei Tribunali e via dei Teatini, una folla sorridente, sicurà di sé, complimentosa, di uomini di studio, di foro e di mondo, in cui è diffuso uno spirito ipercritico, in cui ogni individuo si sforza di dominare e di distruggere l’avversario, e una frase spigliata, un motto arguto valgono più di una bella opera, e chi ha ingegno da vendere lo spende volentieri e si allieta di speranze, e la lotta è vivace, ed il fatto stesso che quello spirito vien censurato come indifferentismo verso la sostanza delle cose, come disistima vicendevole e ipocrisia e improntitudine, e lodato come tolleranza e simpatia, è prova della sua vitalità. Aggiungono a ciò che, dopo quella di muover la lingua, la maggiore, la più serie occupazione del Leccese è di far l’amore, a venti come a sessant’anni, che le donne vi sono belle ed eleganti e le ragazze trovan modo di concordare col loro piacere il cattolicume tradizionale. In realtà se il bigottismo, che di natura sua è antipolitico, non consentisse la sensualità, non si comprende a che cosa questi disgraziati dovrebbero volgersi, né come sciupare le energie in una obbliosa servitù.

Mercoledì 22.04.2015 – Lettera di aprile 1925 [La psicologia dei contadini pugliesi] – #Formiche/04

La psicologia passiva dei nostri contadini, timidi, impacciati, chiusi, e perciò appunto capaci delle esplosioni più subitanee, mi ricorda sempre quel calabrese sergente dei gendarmi che diceva al Settembrini, arrestato la prima volta: «Professore, voi siete professore, ma io vi voglio insegnare una cosa. Tre cose rovinano l’uomo, cioè la penna, la carta e il calamaio». Questi contadini, che contro i loro padroni, proprietari assenteisti o grandi fittuari sfruttatori, non nutrono se non rancore, si son fatti dovunque in questi anni una fama di bestialità e di violenza, e anche l’homo metaphysicus, che fu qui tempo fa, ne ebbe l’impressione di maggiore rozzezza e primitività di aspetto, né qui c’è alcuna vita di studi, se non ad Altamura. Ma tieni presente che Ernesto Fortunato li sapeva amare così come sono, e non li trovò né ostili, né violenti, né bestiali. Naturalmente il ’19 si abbandonarono qua e là a deplorevoli eccessi, ma i loro padroni furono tutt’altro che cristiani, a Gioia come altrove. Si tratta dunque sempre di uomini che sappiano dominare, cioè amare e comprendere.

Se per caso ti viene qualche vecchio intelligente e sentenzioso, ti farà, per ottenere qualcosa, l’indovino, il profeta, il consigliere, il novellatore, se pure non si spingerà nelle pratiche più difficili della divinazione del futuro. Sempre ti dirà di guardarti dal prossimo di Dio, e che ti ha voluto bene ti andrà in faccia al naso, e questo significa che non bisogna partecipare alla vita politica, non scrivere, non parlare, perché da noi quelli che vi partecipano rovinano sempre sé e le loro famiglie, gli onesti, s’intende; sempre sentenzierà che il mondo è oggi un mondo… chi serpente, chi leone, chi tigre… volpi no; son troppo miti bestiole, pel nostro contadino, per entrare nel ceto civile. Fai poi da indovino alle ragazze di casa dei segreti del loro cuore e cerca di allietarle e interpreta anche i sogni e dà notizia dei morti, e che ha sognato la mamma vestita di velluto tutto infiorato, segno di gloria, che gli portava un regalo di uva nera, segno di lutto, che però io non mangiavo, segno che non ci sarà un altro morto, ma era molto triste e cioè vuole suffragi per la sua anima; e le donne lagrimano mentre quegli suggerisce i numeri del lotto. Mescolerà anche oscure storie di diavoli coi cavalli di bronzo, dell’uomo dalla barba bianca, di Luciferre e dell’anticristo, figlio della monaca e del monaco segreto, dei sett’anni di buona annata, della fine del mondo, quando la terra sarà bruciata sette palmi, e che iddio ha creato il povero e il ricco, ed il povero deve campare di sotto al ricco. Vengono poi le storie della sua vita militare, a Milano, quando lui faceva le marce portandosi nello zaino un fiasco di vino, e ad un certo momento il suo tenente aveva sete e ricorreva al suo fiasco, e poi il suo capitano aveva sete anche lui e chiedeva di bere, e beveva pure il suo maggiore, e così anche il suo colonnello e fin il suo generale, tutti bevevano, uno dopo l’altro, e lui si buscava all’ultimo cento lire! Ma oggi!… oggi è il mondo… , oggi è un mondo… chi serpente, chi leone, chi tigre… Il rimedio? Un «vespro»; ma… ohé, non solo al nostro paese, ma per ogni paese; ognuno si uccide i suoi, fino ai topi e ai gatti. «Ma non bisogna uccidere, mio caro, e tu sei un buon cristiano; non tiravi di coltello neanche nel vino, quando ce n’era.» È giusto ciò che dici vossignoria, ma oggi ognuno vuol essere sopra l’altro: non devi far questo, non devi far quest’altro. E siamo noi che gli diamo la forza! Sì, io aiuto te, perché mi dai questo e questo. Oggi è più brutto del ‘60, quando il pane arrivò a dodici grani. Passa così alle altre sue glorie, quelle dello sciabà elettorale di una volta, ai tempi dell’on. Abruzzese, che a casa sua non mancavano maccheroni, formaggio, aleatico e moscato, perché la moglie era malata e lui ricevette un ceffone da Michele Somma, della parte avversa, ma glielo restituì; talché il rimedio vero è pur sempre quello, un ammazzamento universale dei padroni, se non vogliamo mangiarci l’un l’altro per fame. Ma tu perché quando eri sul municipio non mi desti quella pezza di terreno comunale?

Se si comprende l’improvvisa uscita finale, è difficile sceverare qualcosa in tutto questo tritume psicologico, dove, in assenza di una religiosità operante e trasformante, la mancanza di dignità civile si colora di rassegnazione, con qua e là scoppi di ira impotente. Né è a credere che i giovani di oggi siano migliori, e se invece degli antichi poemi religiosi popolari cantano le cigolettes, non è mutato il fondo; soprattutto non è diversa né migliore la classe colta; in alto e in basso mancanza di tradizioni civili, anarchismo ed abito alla violenza. La legge cominciò a farsi sentire quaggiù una quarantina di anni fa soltanto e si capì che certi ammazzamenti, certi scherzi, come dicono, per faida, bisognava pagarli. Ma era solo punizione dell’assassinio. Che cosa altro porta la legge? Forse il pane? Forse il danaro per le tasse? Forse la terra? Dice il Galanti nella citata relazione: «Nei feudi i demani sono a profitto dei baroni, dei loro agenti e protetti; nelle città demaniali o allodiali cedono al comodo dei più potenti concittadini» Allora, come oggi!

Foto: _Zeta_, Ears and Trulli (Creative Commons)

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