#SpoonTwitter, il flusso delle comunicazioni

Alfredo Colella ha lanciato pochi mesi fa l’hashtag #SpoonTwitter per riflettere su “il” Twitter. Che, a volte, diventa un cimitero.

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Serendipità: mentre ci accingiamo a lanciare #TwiFaber per giocare con Fabrizio De André e Edgar Lee Masters, @diconodioggi ci segnala il tuo #SpoonTwitter. Come è nato questo hashtag, e quali divertenti conversazioni ha innescato?

Una sera, avevo appena assistito su Twitter a delle discussioni piuttosto inutili, con le solite dinamiche social di insulti, giudizi, animi scaldati senza apparente ragione. Segnalai il mio disappunto, affidandolo a un immaginario epitaffio, con #SpoonTwitter. Conoscevo bene l’Antologia di Spoon River per averla letta e ascoltata più volte e il parallelo fu naturale. Su questo social cosa siamo se non lapidi, tutti con bio e pic? Cosa sono i nostri tweet se non quello che decidiamo di lasciare di noi stessi perché ci racconti agli altri, epitaffi per l’appunto? Cosa è il Twitter se non un grande cimitero di storie, pieno di personaggi di ogni genere? Così nacque, con l’hashtag, l’invito ai miei follower di far parte di questo progetto.
Dopo una panoramica dei classici personaggi da social, raccontandone vita e triste fine in 140 caratteri l’hashtag iniziò a girare: in molti parteciparono, per parlare di se o raccontare altri account, tanto che in breve l’epitaffio divenne un modo diverso per raccontare gli altri utenti, un #FF fuori dal coro e dai venerdì.
A #SpoonTwitter parteciparono, senza promozione o azione specifica da parte mia, oltre 600 utenti con numerosi tweet, che consentirono all’hashtag di finire fra i più citati della giornata. Ma, a parte il successo inaspettato, la cosa più bella è stata fare incontrare account diversi e poco abituati a raccontarsi, che si sono messi in gioco confrontandosi con uno stile letterario importante.
Uno storify di #SpoonTwitter è visibile qui.

La tua presenza su Twitter ha un tocco di trasognatezza, a partire dal nome che adotti: a cosa serve davvero “il Twitter”? Serve davvero o è soltanto un succedaneo del bar dello sport?

Partiamo da il Twitter: l’articolo mi serve per prenderne le distanze (come quando si dà del lei a qualcuno che si conosce) e perché lo considero un luogo preciso, un condominio sovraffollato o una cittadina di provincia dove si consumano passioni e omicidi o (per tornare a Spoon River) un cimitero di campagna pieno di storie bizzarre. O, infine, il Bar Sport dove tutti si fermano e qualcuno rimane, dove si parla di tutto e di tutti con una superficialità di fondo che lo strumento impone.
Detto questo, il Twitter serve eccome. Per informarsi e imparare quanto è facile disinformarsi. Per raccogliere spunti o suggerimenti e per chiederne. Per confrontarsi, più di Facebook in quanto ci si trova fuori contesto, tra estranei pronti a giudicarti o a ignorarti, e devi giocarti tutto in 140 caratteri. Infine, è un’ottima palestra di sintesi, il che non guasta.

Dopo la sbornia degli anni scorsi, si diffonde la sensazione che oggi siamo pronti per un uso più consapevole e maturo dei social network. Ma è davvero così semplice non trasformare un piacere del tempo libero in una inconsapevole dipendenza?

Non è semplice: i social possono fornire gratificazioni immediate e visibilità, che nella vita quotidiana spesso sono difficili da ottenere. E questo genera bisogno crescente: non a caso il Dsm ha inserito la dipendenza da Internet nell’elenco delle patologie accertate alla pari di gioco d’azzardo o droga.
I social network danno molto ma prendono moltissimo in termini di tempo, concentrazione, impegno e emozioni. Eppure, dal mio punto di vista credo che il segreto sia metterci più qualità e meno quantità: twittare meno ma twittare meglio. Vivere i social con passione e vivere con passione tutto il resto, così da tornare su Twitter o Facebook per raccontare, trasmettere, condividere in modalità meno autoreferenziale. Portare sui social più vita vera possibile è un buon metodo per non vivere solo sui social e, allo stesso tempo, accorgersi che non tutto può essere raccontato perché verrebbe banalizzato. Più o meno, il concetto è quello che ho espresso anche in questo tweet.

Le persone leggono poco e sempre meno sulla carta, le redazioni dei giornali soffrono il freddo per pagare i conti, eppure tra mail, web e social non si è mai scritto tanto quanto oggi. Insomma, che sta succedendo secondo te?

Mi viene in mente il divertente libro di Jacobson, Prendete mia suocera, che racconta il futuro prossimo dell’editoria schiava di questo fenomeno per il quale tutti scrivono e nessuno legge. Una situazione conosciuta e discussa da diversi anni, aumentata dai social e dalla democratizzazione nella creazione e condivisione dei contenuti. Blog, Twitter, Facebook, Instagram o Flickr per le foto, Youtube per i video: siamo tutti creatori di contenuti più o meno artistici e creativi e possiamo accedere a canali di distribuzione un tempo inimmaginabili registrando un account. Eppure, mentre i giornali muoiono le notizie non sono mai state così vive: siamo aggiornati in tempo reale su tutto, e su tutto esprimiamo la nostra opinione diventando a nostra volta divulgatori di notizie.
Non vedo nulla di nuovo in questo: la dinamica è sempre quella del Bar Sport, è solo l’audience che viene amplificata. Il vero problema è la carta, o il Cd se parliamo di musica: il supporto fisico. Costi, tempi di realizzazione e modalità di fruizione condanneranno tali supporti a farsi da parte, diventando oggetti di nicchia che conosceranno in futuro una nuova stagione di successo come i vinili. Ma su larga scala, nel giro di qualche decina d’anni, informazione e cultura si affideranno quasi unicamente a supporti digitali.
Diverso il discorso della qualità delle opere. Tutti scrivono, pochi scrivono bene, ma è un bene scoprire con facilità buoni autori, musicisti, videomaker, fotografi. Molti dicono che su Internet hanno successo gli incapaci; vero, dico io, ma anche nell’editoria, basti guardare molti titoli nelle classifiche dei libri più venduti. Poi, più che scrittori incapaci, magari sono capaci imprenditori di se stessi. Su web o su carta.
Resta un ultimo punto, il diritto d’autore su Internet. Tutti scrivono, e molti scrivono cose scritte da altri, in una sorta di loop di copiature che nemmeno un monastero di amanuensi. E quelli che copiano di più sono quelli che nemmeno scrivono sul Web, ma ne attingono a piene mani. Ecco, Internet oggi è pieno di autori senza alcun diritto, che però si sentono giustamente in diritto di essere autori: questo segna davvero la distanza fra chi scrive per professione sui giornali e sui libri, e chi scrive su un blog o su un social.

Alfredo ColellaAlfredo Colella (@alfcolella) – Dopo la laurea in Filosofia teoretica all’Università di Pavia sul tema della decostruzione derridiana, ha decostruito lui stesso parecchie volte la sua vita personale e professionale. Di città in città, passando dal pizzaiolo al redattore, dal commerciale al consulente marketing, si è infine fermato sulle colline fra Reggio e Modena, dove ha messo radici e si occupa di pensare e realizzare progetti digitali. Scrive da sempre, per hobby e per sfogo, e per hobby e per sfogo fa il musicista, quando la vita glielo consente.

Foto: Multiple Tweets Plain, mkhmarketing (Creative Commons).