Twitteratura o protestantesimo del discorso?

Pierluigi Vaccaneo >

La Fondazione Cesare Pavese con il progetto #LunaFalò ha tentato di attuare la strada dell’innovazione e della sperimentazione, rimanendo fedele alla propria essenza di divulgatore culturale “alto”, ma sfruttando le peculiarità di twitter.

Cesare Pavese, da “Il mestiere di vivere”:

“Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in unere di vivere”

“È bello scrivere perchè riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.”

Pensieri di Cesare Pavese che dimostrano l’importanza, per ogni creazione e produzione culturale, di portare dentro di sé una scintilla rivoluzionaria, per smuovere, destare dal torpore di ciò che è consueto e dare una nuova opportunità, una via di fuga. Deve essere un punto di rottura, un “passaggio – per dirla con Tadeusz Kantor – dall’altra riva alla nostra vita”. Deve essere quindi innovazione, in quanto ogni atto di conoscenza porta in grembo una fertile opportunità di rinascita.

Compito degli enti, come la Fondazione Cesare Pavese, che si pongono come elementi di divulgazione culturale, come intermediari tra l’opportunità e la necessità del sapere, è permettere questo sviluppo. Se però fino ad oggi il sapere è sempre stato caratterizzato dal preconcetto per cui esso viene tramandato secondo un modello dialettico “top-down”, dall’alto dell’iperuranio del pensiero ai pochi eletti in possesso degli strumenti necessari per tradurre il “verbo”, con l’avvento dei media sociali, questa dialettica a senso unico deve cambiare direzione e diventare un modello “bottom-up” che dalla massa si erge e si propaga viralmente  contaminando con le idee.

Un’epidemia del sapere che potrà rappresentare l’unica guarigione per una società, come quella attuale, troppo disabituata al gusto, al senso critico, al pensiero. Dall’Homo sapiens all’Homo customer la capacità di germinazione di idee si è atrofizzata a scapito del passivo e acritico “consumo” di uniformati cibi per la mente. In un momento storico in cui, con l’avvento dei social network, nasce lHomo prosumer, produttore e consumatore di idee, essere intermediari di “cultura alta” significa cercare di tradurre il sapere, di ri-mediarlo, per renderlo fruibile al grande pubblico educato al preconcetto della “turris eburnea” e caratterizzato da un senso critico standardizzato. Questo il primo passo verso quel concetto di libertà che Albert Camus definiva come “una possibilità di essere migliori”; un’opportunità di crescita individuale e collettiva ottenuta attraverso la fruizione della vera essenza di ogni atto culturale: lo sviluppo di un’autonomia critica e intellettuale.

La Fondazione Cesare Pavese con il progetto #LunaFalò ha tentato di attuare questo processo: ha percorso la strada dell’innovazione e della sperimentazione, rimanendo fedele alla propria essenza di divulgatore culturale “alto” ma sfruttando le peculiarità di twitter (su tutte la sintesi dei 140 caratteri) per veicolare in modo creativo il messaggio dello scrittore e quindi cercare di proporre cultura orizzontalmente, espandendosi verso la massa, e non verticalmente, dall’alto al basso.

Cesare Pavese fece lo stesso: quando ad inizio secolo scorso (in Italia erano gli anni del dannunzianesimo, dell’ermetismo e della retorica di regime) si interessò, per primo, alla letteratura americana, definendola  “qualcosa di molto serio e prezioso”, trovò un pensiero e un linguaggio nuovo che tradusse nella sua opera sperimentando un nuovo strumento comunicativo, ri-mediato sullo slang americano, che fosse comprensibile a tutti ma che avesse al proprio interno la forza sintetica ed evocativa del dialetto.

Voce e modernità che Cesare Pavese apprese da Whitman il cui slang, assieme a quello di Lewis (la prima traduzione di Pavese fu proprio “Our Mr. Wrenn di Lewis cui seguì, tra le altre, Moby Dick di Melville), rappresentava un punto d’arrivo aggressivo, un “certo protestantesimo del discorso”, una conquista sulla convenzione.

“Il sapore di scandalo e di facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i loro argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle pagine tradotte, riuscirono irresistibili ad un pubblico non ancora del tutto intontito dal conformismo e dall’accademia. […] Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà […]. […] la ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla vistosa ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da un’aspirazione severa e già antica di un secolo a costringere senza residui la vita quotidiana nella parola. Di qui il loro sforzo continuo per adeguare il linguaggio alla nuova realtà del mondo, per creare in sostanza un nuovo linguaggio, materiale e simbolico, che si giustificasse esattamente in se stesso e non in alcuna tradizionale compiacenza.” [1]

“Costringere senza residui la vita quotidiana nella parola” significa usare sintesi e metafora, muoversi verso una certa essenzialità formale della lingua per esaltarne la carica semantica e creare uno strumento comunicativo immediato e dirompente, giovane e stratificato, simbolico ed epifanico.

“Lo stile di Anderson! Non il dialetto crudo ancora troppo locale… Ma una nuova tramatura dell’Inglese, tutta fatta d’idiotismi americani, di uno stile che non è più dialetto, ma linguaggio, ripensato, ricreato, poesia” [2]. La genialità di Cesare Pavese sta dunque nell’aver creato, partendo dalla lingua ufficiale e “alta”, un ibrido, uno strumento (che con La luna e i falò raggiunge la sua massima maturazione) innovativo (perché carico della forza semantica del dialetto), accessibile a tutti e funzionale alla propria poetica allegorica: una democratica e rivoluzionaria (per lo stile del periodo) esplosione di contenuti, dovuta all’urgenza artistica del comunicare e alla necessità di farlo con piena libertà di espressione e accessibilità da parte dei lettori.

Se Cesare Pavese è stato l’avanguardia “protestante” di una novecentesca ricerca sul discorso, la Fondazione a lui dedicata deve continuamente cercare di rinnovarsi per mediare il messaggio dello scrittore e avvicinarlo all’utente “prosumer” di oggi. Il primo passo da compiere è cercare di disintermediare e disintermediarsi, eliminarsi cioè come medium caratterizzato dal preconcetto “eburneo” che ha, da sempre, tenuto lontana la Cultura dal grande pubblico, per reintermediarsi come moderno strumento di pervasiva irradiazione transdisciplinare. Questo non significa sminuire o svalutare il messaggio pavesiano, significa tradurlo senza tradirlo, preservandone le caratteristiche “alte” ma sfruttandone le potenzialità di fruizione, tipiche ed esclusive di un’opera immortale.

L’intento di #LunaFalò (progetto sviluppato assieme ad Hassan Bogdan Pautàs) è stato quello di dar vita ad un nuovo “protestantesimo del discorso”, un gioco di rielaborazione del vecchio sistema comunicativo, attraverso le caratteristiche (32 brevi capitoli ricchi di condensati metaforici e personaggi allegorici) e le potenzialità dell’opera più conosciuta, letta e tradotta di Cesare Pavese. Una ri-scrittura durata tre mesi (rielaborazione in 140 caratteri di un capitolo del romanzo ogni due giorni) che ha generato una viva comuni (sono una sessantina i ri-scrittori che hanno partecipato fedelmente al progetto con più di 5 mila tweet per 600mila contatti raggiunti) legata da una diacronica esperienza di creatività collettiva vissuta sincronicamente in un nuovo romanzo globale.

#LunaFalò cosa è stata? O meglio cosa ha fatto? Il risultato più interessante di #LunaFalò è stato quello di riproporre, attraverso l’obiettivo primigenio di ri-scrittura, un’attenta e approfondita ri-lettura in chiave social del romanzo di Cesare Pavese. Leggere, ogni due giorni, un breve capitolo dell’opera per rielaborarlo e farlo star dentro ai canoni sintetici di twitter, ha significato doverne cogliere a fondo la valenza contenutistica e allegorica, ha significato fare quello che poche volte, nei confronti di Pavese, si è fatto nel corso degli anni: metter al centro dell’attenzione il testo, slegandolo da qualsiasi sovrastruttura storica o privata dello scrittore. #LunaFalò ha dunque creato un viaggio crossmediale partendo dal testo di Cesare Pavese, passando per una sua deframmentazione linguistica attraverso il social (twitter), e giungendo ad una riappropriazione individuale e collettiva dell’opera nella sua globalità, alla luce dell’esperienza di approfondita ri-lettura.

In questo senso #LunaFalò ha svolto appieno il compito, suggerito da McLuhan, di metafora attiva in quanto ha tradotto l’esperienza del romanzo di Cesare Pavese in una forma nuova, un ibrido che è “[…] momento di verità e di rivelazione dal quale nasce una nuova forma che ci trascina fuori dal sonno ipnotico in cui ci aveva trascinati la narcosi narcisistica. Il momento dell’incontro tra i media è un momento di libertà e di scioglimento dallo stato di trance e di torpore da essi imposto ai nostri sensi.” [3]

#LunaFalò ha dunque creato un nuovo incontro di media, che è stato incontro di sensi risvegliati dal torpore individualistico della fruizione visiva di un romanzo. La sfida di #LunaFalò e della Fondazione Cesare Pavese è stata e sarà quella di disintermediarsi per reintermediarsi in maniera interdisciplinare e transensoriale: diventare “hub” culturale, una sorta di incubatore/laboratorio in cui contaminare idee nei diversi linguaggi artistici per far nascere e sviluppare nuovi ibridi che rappresentino, come l’italiano contaminato dallo slang americano per Pavese, lo strumento per tradurre la complessità del mondo che ci circonda e quindi siano, per l’uomo, un’opportunità di comprensione, di conoscenza, di crescita e di libertà: “qualcosa di molto serio e prezioso”.

Cesare Pavese
Reading at Cesare Pavese Foundation

[1] C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990
[2] C. Pavese, Sherwood Anderson, in: C. Pavese, La letteratura… cit. n. 1.
[3] M. McLuhan, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2001