Scrittura collettiva e twitteratura

Paolo Costa >

Con il romanzo di ispirazione storico-resistenziale In territorio nemico, uscito ad aprile per minimum fax, il mondo della scrittura collettiva si arricchisce di un nuovo, ambizioso passaggio.

Lo firmano 115 autori, riuniti sotto la sigla SIC (Scrittura Industriale Collettiva). Confesso di averlo trovato sciapo. Mi aspettavo più “gioia da leggere”, secondo ciò che fu promesso quattro anni fa. Ma anche più gioia di scrivere. Sospetto che le energie degli estensori si siano in gran parte consumate nella ricerca di una coerenza diegetica – che infatti c’è, evidente – a discapito del fatto espressivo, della perspiquità letteraria, della potenza dei personaggi. Talvolta l’urgenza del racconto gioca brutti scherzi, si depotenzia nel cliché narrativo e linguistico. Ne In territorio nemico accade troppo spesso: la terza persona, i tempi verbali volti al passato, l’inevitabile “freddo della lama”, i denti che altrettanto inevitabilmente “stridono”, un rumore che giunge “inaspettato”, i capitoli che si chiudono a sipario su un protagonista smarrito, “mentre fuori comincia a piovere”.

Resta il fatto che il metodo SIC è potente (vale la pena di approfondirlo, qui). Un metodo che lavora in ispecie sulle possibilità del récit, superando la sindrome della staffetta che mina altre imprese di scrittura collettiva. Lo spiega bene Vanni Santoni nella bella intervista concessa ad Arturo Robertazzi (In Territorio Nemico, il Romanzo a 230 Mani e 115 Teste). Qual è allora il punto? Il punto è che la scrittura non è solo récit disincarnato. È anche parole. E qui il metodo appare perfettibile. Perché l’esigenza di omogeneità non può tradursi in trivializzazione stilistica. L’alternativa all’affollamento di personalità non può essere l’assenza di personalità. Le regole del racconto hanno bisogno di un testo. A volte, anzi, il testo viene prima delle regole. La scrittura è, platonicamente, lavoro di scavo nel testo, alla ricerca della sua cifra.

Ecco perché, mentre guardo con grande interesse alle esperienze di Wu Ming, SIC e tanti altri, sono più attratto da un altro tipo di esercizio. Che cosa abbiamo fatto con #LunaFalò e #Leucò? In un certo senso si è trattato di applicare un procedimento inverso, basato sull’idea che il primum è un testo letterario dato. In entrambi i casi il punto di partenza, da cui si è dipanato lo sforzo collaborativo della comunità, non era uno schermo bianco, ma un testo che preesisteva: un testo che si è offerto a noi nella sua sacralità, con il suo bagaglio di domande, suggestioni e valori formali, con le sue idee e il suo stile. Un testo che c’era prima di noi e che si collocava dentro una tradizione: la letteratura. Un testo opera di un autore, che chiedeva di entrare in contatto con noi. Dunque abbiamo letto, commentato, riscritto, interpretato, dissacrato, ricontestualizzato, smentito quel testo. Ma ogni tweet, ogni parola che abbiamo scritto non ci sarebbero stati, se non come risposta a esso. Che cos’è questo tipo di operazione? In mancanza di soluzioni più convincenti, l’abbiamo chiamata twitteratura. Ma è evidente che usiamo tale termine in modo differente rispetto ad altri, i quali intendono con esso forme di espressione letteraria – non necessariamente collettive – basate sulla piattaforma Twitter e quindi sulla regola aurea della brevità. Twitteratura come aforisma, frammento o haiku, dunque.

In sostanza possiamo riconoscere all’opera una serie di opposizioni: scrittura individuale vs scrittura collettiva, scrittura estesa vs scrittura breve, scrittura vs interpretazione. In questo senso la twitteratura che ho in mente è una forma di ermeneutica/decostruzione fondata sulla brevità e sullo sforzo collaborativo.