Pavese per hashtag

Paolo Costa * >

Come parlare, in Polonia, di Cesare Pavese e dell’esperienza di #Leucò a un pubblico di studenti universitari e di ricercatori? La sfida – per me che ho una frequentazione superficiale della cultura di quel paese e non ne conosco la lingua – è ardua. Provo a partire da quello che mi sembra un punto di contatto: l’irrisolta questione del rapporto fra poesia e vita nella tradizione letteraria polacca. Mi servo di due endecasillabi famosi, che si leggono in apertura del Trattato poetico di Czesław Miłosz (1957): “Na znak, że tylko mowa jest ojczyzną | Mur twój obronny u twoich poetów.” Nella versione italiana, curata per Adelphi da Valeria Rossella (2011), il senso di questo passaggio incerto è reso con una dichiarazione assai impegnativa: “l’unica patria è la lingua”. Gli amici polacchi mi persuadono che, quantunque non letterale, la traduzione è corretta. L’identità nazionale polacca sembra un fatto filologico più che territoriale, da preservare con la parola più che con mura o guarnigioni (saggia strategia, quando i vicini di casa si chiamano Prussia, impero absburgico e Russia). I turbamenti del poeta, dice Miłosz, sono tutti qui, nella ricerca di quella linea sottile che separa il miraggio dell’arte per l’arte dalla retorica nazionalista. Lo spirito della storia non si può eludere: “Chiunque in questo secolo tracci | con bianca mano una serie ordinata di lettere | sul foglio, sente bussare, sente le voci” della storia (“Ktokolwiek białą ręką w tym stuleciu | Prowadzi rządki liter na papierze | Słyszy stukania, głosy biednych duchów”).

Ecco il punto di contatto. Anche Pavese sentiva la tensione fra le chiamate della storia e i doveri dello stile, cui il letterato non deve mai abdicare. Una tensione che, contrariamente a molti scrittori suoi contemporanei, non seppe risolvere abbracciando la lezione del neorealismo. Pavese seguì una strada poetica più tortuosa e solitaria, quasi inattuale. Anch’egli – esule in casa propria – cercò nella lingua l’unica patria possibile. Come raccontare dunque Pavese agli amici polacchi? Ci proviamo per hashtag, selezionando alcune parole chiave nella sua vicenda umana e artistica.

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#suicidio [#samobójstwo]

Cesare Pavese rischia di essere ricordato soprattutto per la sua fine scandalosa (27 agosto 1950). Il pericolo è che il suicidio devii il mito di Pavese lontano dalla sua opera letteraria, soprattutto se pretendiamo di esprimere un giudizio morale, come fecero allora le culture dominanti: quella comunista e quella cattolica. Eppure egli stesso ci invitò a non fare “troppi pettegolezzi” intorno alla sua vicenda: così scrisse sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, nella copia del libro che si trovava accanto al letto della camera dell’albergo Roma, a Torino, in cui si tolse la vita. Noi pensiamo che usare gli occhiali del suicidio per leggere retrospettivamente tutta l’opera di Pavese sia filologicamente sbagliato e umanamente impietoso.

 

langhe
Foto: @erikabaracco

#langhe

Pavese è uno scrittore monotono. Nel senso che nel corso della sua opera ha continuato a scavare, con ostinazione, gli stessi filoni. La sua poetica si muove intorno ad alcuni motivi tematici forti: il mito dell’infanzia e il ritorno al paese alla ricerca delle radici, il contrasto fra città e campagna, il rapporto irrisolto fra l’uomo e la donna (quest’ultima vista nella sua potenza sensuale e annientatrice) la solitudine esistenziale e l’incomunicabilità.

Le Langhe sono il serbatoio di simboli a cui Pavese attinge per esprimere questi temi. In particolare la collina va intesa nella sua polivalenza metaforica: è terra, lavoro e fatica; ma anche donna, sesso, dolcezza e struggimento per l’infanzia perduta. Si oppone alla pianura e alla città, in cui l’esistenza umana rischia di smarrirsi.

 

Constance-Dowling

#donna [#kobieta]

Alla ricerca della donna-madre, terra a cui tornare per consumarsi nel sangue ed estinguersi, Pavese inseguì amori impossibili. Come quello per la bellissima attrice americana Constance Dowling, che Pavese corteggiò senza grande successo negli ultimi tre anni della propria vita. Altra figura femminile importante nella biografia di Pavese è quella di Bianca Garufi, frequentata fin dal 1944. Da un lato una donna pronta a fare i conti con il proprio dolore (la Garufi diventerà psicoanalista junghiana), dall’altro uno scrittore disponibile solamente a farne materia letteraria. Con lei Pavese scrisse Fuoco grande, pubblicato solo nel 1959. Uno stralcio epistolare ci aiuta a capire la natura del loro rapporto (da Una bellissima coppia discorde. Il carteggio Cesare Pavese e Bianca Garufi. 1945-1950, a cura di Mariarosa Masoero, Leo S. Olschki, Firenze, 2011):

Cara Bianca,
(…) che cosa pretendi? che ci coccoliamo come due conigli? Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. Ciascuno ha i suoi sistemi – noi siamo una bellissima coppia discorde, e il sesso – che dopotutto esiste – si sfoga come può.

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#america [#ameryka]

L’esperienza artistica di Pavese non può essere pienamente compresa senza considerare l’influenza, su di lui, della tradizione letteraria americana, e in parte anche inglese (senza confondere le due, però). La letteratura americana è per Pavese spiraglio di libertà, fonte mitologica e serbatoio di suggestioni letterarie.

Ciò vale certo sul piano tematico. Pensiamo agli echi del “polacco” Joseph Conrad, il più americano fra gli inglesi, in tanti personaggi di Pavese, adulti che non riescono a risolvere se stessi e a raggiungere la maturità. Nella Nota introduttiva all’edizione italiana del 1947 de La linea d’ombra di Conrad, Pavese parlava un po’ di se stesso, della sua paura del mare e del suo titanismo privo di santità, quando scriveva:

Questi piccoli uomini che, febbricitanti e risoluti, tengono duro in questo racconto sulla bella nave stregata, escono da un stirpe di coraggiosi non di santi.

Ma tanto più vale la lezione americana sul piano stilistico. Qui i riferimenti sono Walt Whitman per la poesia e Herman Melville per la narrativa. La poetica di Whitman fu oggetto della tesi di laurea di Pavese, che non a tutti piacque – per il suo impianto crociano – in un’università ormai fascistizzata (1930). Quanto a Melville, vale la pena di ricordare che a Pavese si deve la prima traduzione in italiano, nel 1932, di Moby Dick. Senza contare l’influsso su Pavese di un alto autore americano, Edgar Lee Masters, e quello di Pavese su Fernanda Pivano, che della Spoon River Anthology fu traduttrice.

 

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#collanaviola

Durante la guerra Pavese si gettò nella lettura di Carl Gustav Jung, dell’etnologo Ernesto De Martino e degli antropologi Lucien Lévy-Bruhl, Kàroly Kerényi e James Frazer. Ma anche Gianbattista Vico divenne, in questo contesto di letture, un autore importante. Pavese e De Martino cureranno, insieme, la “Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici” di Einaudi (la celebre “Collana viola”, vedi foto). Il loro rapporto, però, sarà sempre conflittuale a causa di una diversa visione ideologica: De Martino considerava ingenua la pretesa – alla base dell’ispirazione dei Dialoghi con Leucò – di scoprire un valore nelle fantasie dei primitivi.
Maturò così in Pavese la concezione del mito come forma di conoscenza e rappresentazione della realtà superiore a quella razionale. Vi è, in questa visione, un nesso stringente fra mito, memoria e infanzia. Esplorare la dimensione mitica, attraverso il ricordo, è un passaggio necessario della creazione artistica. Scriveva Pavese (Il mestiere di vivere. 1935-1950, Einaudi, Torino, 1990, p. 233):

L’arte moderna è – in quanto vale – un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. E in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente. Non resta agli artisti che rivolgersi e ispirarsi all’epoca in cui non erano artisti, e questa è l’infanzia.

 

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#augustomonti

Pavese studiò al liceo D’Azeglio di Torino ed ebbe Augusto Monti come suo professore di italiano e latino. Fra i suoi compagni di scuola Franco Antonicelli, Giulio Cesare Argan, Ludovico Geymonat, Renzo Giva, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Mario Sturani, Federico Chabod, Giulio Einaudi, Remo Giacchero, Massimo Mila, Enzo Monferini, Vittorio Foa.

L’insegnamento di Monti è stato fondamentale per la formazione di Pavese. Ha significato innanzi tutto l’assimilazione di un metodo, basato sul rispetto dei testi e sull’esercizio dello spirito critico. Poi ha voluto dire assimilare in età precoce il valore dei classici (i “giganti” sulle cui spalle camminano i “nani” della modernità). Infine ha affinato lo sviluppo di una coscienza civile, ovvero una riflessione sul ruolo della letteratura e dell’intellettuale nella società.

(*) Sintesi dell’intervento alla Międzynarodowa Interdyscyplinarna Konferencja Studentów Języków Romańskich (#MIKSJR), Katowice 25 maggio 2013.