Hassan Bogdan Pautàs > Con eZagreb Arturo Robertazzi tratteggia la guerra in un tweet che non si sostituisce ad essa, ma ne invoca l’analisi perché non venga dimenticata.

Il primo elemento distintivo di Zagreb è che si tratta di un romanzo deduttivo, poiché l’intreccio rappresenta una storia di guerra a carte ‘coperte’: i riferimenti storici e geografici non sono esplicitati, sebbene il titolo rimandi esplicitamente alle guerre jugoslave (1991-1995). L’intreccio si dipana in una base in cui ha luogo un eccidio di militari e civili, ma il lettore non può immediatamente sapere chi siano i Serbi e chi i Croati.
In realtà, l’autore spiega che cominciò a scrivere il romanzo senza focalizzare la proria attenzione sul contesto storico, in modo da raccontare una guerra civile prescindendo da una specifica connotazione etnica o geografica: i personaggi del libro non sono storicamente determinati; non agiscono nella Storia, ma in uno spazio indefinito che spinge il lettore ad immaginare dove e quando la trama sia ambientata.

L’empatia per le vittime risulta così mediata da un’iniziale cesura, che si risolve nel finale: il protagonista ha soltanto diciassette anni, i suoi più violenti commilitoni sono altrettanto giovani e l’intero nucleo militare di cui fa parte si riduce ad una famiglia e ad un gruppo amicale che al principio della guerra avevano subito ulteriori atrocità. Il lettore è così riportato a quella sensazione di violenza assoluta dall’origine non chiaramente identificabile che pervadeva ciascun telespettatore europeo negli anni del conflitto in Jugoslavia.
In senso letterario, più che una testimonianza storica, per il suo apparente sradicamento dalla realtà Zagreb si identifica con le distopie e i romanzi postmoderni. Il disorientamento che coglie il protagonista, diviso fra gli aguzzini con cui è cresciuto e gli amici di altra etnia che è chiamato ad uccidere ricorda ad esempio i dilemmi del Cacciatore di androidi di Philip K. Dick: la polizia parallela con cui si confronta è un’entità impostora oppure è lui l’impostore? Allo stesso modo, il protagonista di Zagreb non sa risolversi sulla propria identità, nello schizofrenico passaggio da “Lei dovrà morire […] Sono io a decidere” (cap. I) a “Siamo diventati come loro” (cap. VII).
Allo straniamento della narrazione fa da contrasto proprio il corredo di note, mappe, immagini e filmati che contraddistingue la versione digitale arricchita del romanzo, eZagreb. Al termine della storia, o durante il suo svolgersi, il lettore non può non incuriorirsi su ciò che invece è effettivamente avvenuto in Jugoslavia. Sotto questo punto di vista, eZagreb rappresenta una forma di assoluto rilievo: non un ipertesto, non un romanzo digitale, ma una proiezione teorica verso la terra incognita dell’enhanced book. Hic sunt leones.
Sbaglierebbe, dunque, un lettore che cercasse in Zagreb una testimonianza degli eccidi jugoslavi sulla falsariga della scrittura chimica di Primo Levi. Arturo Robertazzi combina gli elementi della tavola periodica in tutt’altro modo, poiché parte dal presupposto che ciò che egli racconta non è la realtà. Zagreb non è autobiografia, bensì evocazione possibile di mille biografie non raccontate: chi ne volesse capire il senso dovrebbe ripercorrere le scene di “The Melon Route” di Branko Schmidt, leggere Le guerre jugoslave di Jože Pirjevec o affondare le mani ne Il ponte sulla Drina di Ivo Andric.
Branko Schmidt, The Melon Route (2006)
Il livello di lettura che Zagreb pone sulla realtà evocata è perciò simile a quello di un tweet che non si sostituisce ad essa, ma ne invoca l’analisi perché non venga dimenticata: che si tratti di un fatto o di un libro. Un romanzo di esordio non può non mancare di elementi apparentemente non riusciti: l’intreccio è robusto, ma ciascun capitolo risulta eccessivamente contratto; deduzione e induzione della realtà talvolta confliggono; il racconto soffre di una limitata espansione lessicale.
Eppure, eZagreb è una lezione per gli scrittori e gli editori italiani: primo, perché la narrazione non può più prescindere dalla deissi, scrivere è programmare link ipertestuali; secondo, perché l’autore non può più ignorare la necessità di un rapporto diretto, immediato e ‘muscolare’ con il lettore. Arturo Robertazzi lo ha compreso e lo dimostra, con l’umiltà dello sperimentatore scientifico e il coraggio di chi studia la complessità.

Poche ore dopo, lo stesso giovane che mi aveva lodato la grandezza di Njegoš mi raccontò di essere nato e cresciuto a Vukovar, la città in cui è ambientato Zagreb e che durante la guerra divenne parte della non riconosciuta Repubblica Serba di Krajina. Con un bicchiere di vodka in mano, in un evidente stato di commozione al quale potei partecipare in modo del tutto inadeguato, il ragazzo mi raccontò un’adolescenza vissuta in una cantina nella città spianata al suolo dai Serbi e delle sue fughe nei boschi – negli ultimi anni del conflitto – per cercare un fungo allucinogeno con il quale riusciva a stordirsi e non pensare più a nulla.
La frattura in cui #eZagreb scava è la stessa, ed è arduo trovarne di più complesse.