Hassan Bogdan Pautàs* >
Perché in Italia rileggiamo la letteratura su twitter? La lettura è uno strumento per difendersi dal potere: le storie incrociate di Italia e Polonia.
Poiché sono un blogger, e non un letterato, cercherò di spiegarvelo in modo personale. Farò un passo indietro alla Seconda Guerra Mondiale, comincerò da un esempio che vi riguarda. Pochissimi Italiani sanno che 17.000 giovani polacchi – fra caduti, feriti e dispersi – subirono violenza per liberare l’Italia dal Fascismo. Ecco, se volete immaginare l’Italia di quel tempo dovete pensare ad un Paese di giovani che per vent’anni non avevano potuto esprimersi liberamente, né in campo politico né in campo culturale.

Sconvolta dalla guerra, negli anni ‘40 quella stessa generazione fu in grado di manifestare una ricchezza espressiva senza precedenti: penso, evidentemente, ai film di Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica; oppure, per citare alcuni autori, ai romanzi di Vasco Pratolini, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. Questi artisti riuscirono a fotografare l’infinita variabilità culturale e linguistica di un Paese che emergeva dalla guerra nella povertà.
Dall’Italia libera, i giovani di quel tempo si aspettavano un avvenire esaltante: non solo e non tanto sul piano economico, ma anche e soprattutto sul piano dei diritti e delle libertà. Questa promessa di progresso rimase tradita: l’Italia divenne assai rapidamente una delle grandi potenze industriali del mondo, ma al tempo stesso subì un profondo processo di omologazione, a partire dalla diffusione dei nuovi media e dall’affermazione della società dei consumi. L’Italia di Dante divenne un Paese di frigoriferi e televisioni.
Da un lato, il blocco sociale che guidava la crescita economica sposò l’opzione clerico-fascista; dall’altro, il Partito Comunista e molti degli intellettuali che ad esso facevano riferimento non seppero affrancarsi dal modello sovietico, restandone imprigionati. Significativa, in questo senso, è la riflessione di Ignazio Silone dopo la rivolta di Poznan del giugno 1956 e l’invasione russa di Budapest dell’autunno 1956.

“Bisogna anzitutto riconciliarsi con la verità – scriveva allora Silone – e ristabilire un rapporto diretto con essa. Rinunziare, una volta per sempre, agli intermediari. Rinunziare a quelli che ci ordinano quando dobbiamo aprire gli occhi e quando dobbiamo chiuderli e che cosa dobbiamo pensare. Forse è questo, dopo la lezione ungherese, il dovere più importante degli intellettuali.”
Cosa accadde, nei venti anni successivi? Pier Paolo Pasolini lo raccontò con lucida disperazione all’inzio degli anni ‘70: “Quella omologazione che il Fascismo non era riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi – cioè il potere della società dei consumi – invece riesce a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari; togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia aveva prodotto in modo storicamente molto differenziato.” Pronunciate a pochi anni di distanza dall’era della ‘dolce vita’ e del 1968, le parole di Pasolini appaiono come la profezia di una sventura pienamente compiuta. L’Italia di oggi è in effetti un Paese omologato dal messaggio televisivo: gli Italiani non leggono più; nelle case dei poveri i libri non ci sono, in quelle dei ricchi restano chiusi.
Quale è il ruolo dell’intellettuale nell’Italia di oggi? Che senso ha scrivere? Perché è importante continuare a leggere? Al pessimismo senza appello di Pasolini sembrano fare da controcanto le parole di un altro degli intellettuali che nel 1956 seppero restare a schiena diritta e rinunciarono al ruolo passivo dell’intellettuale organico. “In un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, – scriveva Italo Calvino nel 1985 – e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, […] secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.”
La scrittura, dunque, è uno strumento di difesa; una forma di resistenza esistenziale ed estrema del libero arbitrio nei confronti del potere. Non solo e non tanto nei confronti del potere politico, ma in primo luogo nei confronti del potere di quella società dei consumi che finisce per rendere ciascun uomo apparentemente identico all’altro, ciascuna idea e ciascun libro identico agli altri e alle altre. Non un’eguaglianza cosciente, ma una molle identicità incosciente. Leggere, allora, è un modo per difendersi dall’omologazione.
Cosa ha a che fare twitter con tutto questo?
Ecco un altro esempio che vi riguarda. Io feci il mio primo viaggio in Polonia nel 2006, dopo aver visto al Museo della Resistenza di Torino una mostra dedicata all’Insurrezione di Varsavia dell’agosto 1944. Non era un caso che una mostra sulla Polonia si svolgesse in quel luogo. Il Museo, infatti, fu fondato da Giorgio Agosti, che durante la guerra era stato comandante partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione. Giorgio Agosti, che al liceo D’Azeglio era stato compagno di studi di Norberto Bobbio e Leone Ginzburg, era figlio di Cristina Garosci, che in Italia aveva tradotto la letteratura polacca.

Durante quel viaggio visitai i cantieri navali di Danzica, dove nel 1980 era nato il movimento di Solidarnosc. L’installazione che più mi colpì in quel contesto si trovava in una stanza che ospitava sul soffitto due schermi di led rossi contrapposti. Sull’uno correvano gli slogan della propaganda del regime, sull’altro quelli rivoluzionari del popolo polacco. Ora, si dice a ragione che con gli slogan non è possibile argomentare, e che gli slogan semplificano la realtà: sono d’accordo. Eppure, la possibilità di contrapporre un nudo concetto ad un altro resta fondamentale. Ed è proprio per questo che twitter e i social network rappresentano una tecnologia civilmente abilitante: se è sciocco dire che la Primavera Araba del 2011 fu causata da twitter, è tuttavia largamente condiviso che in quel contesto twitter rappresentò uno strumento decisivo per la manifestazione della libertà di espressione.
Se vogliamo dare di ciò una spiegazione meccanica e non politica, possiamo dire che chi si dedichi a twitter facendone una palestra di scrittura scoprirà che scrivere messaggi di 140 caratteri esalta i cinque principi che Italo Calvino riuscì a descrivere nelle sue Lezioni americane: la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visiblità e la molteplicità. Twitter non è certamente uno strumento per produrre opere letterarie, ma resta un gioco perfetto per esercitarsi a scrivere in modo comprensibile ed efficace nella frenesia contemporanea.
Riscrivere un’opera letteraria su twitter significa rileggerla. Il primo esperimento che ho condotto in questo ambito con Giulia Sciannella riguardava proprio gli Esercizi di Stile di Raymond Queneau. Su twitter, infatti, il confine tra lettura e scrittura quasi si annulla. Lo scritto si fa parlato e poi torna scritto, in un ibrido che innesca la creatività. Con la riscrittura de La luna e i falò e de I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, avviate con Pierluigi Vaccaneo e con Paolo Costa, ho appreso che la lettura collettiva di un testo su un social network non produce un altro testo, bensì un commentario. Un metatesto che cresce nelle mani di chi lo legge e fornisce un numero potenzialmente infinito di immagini di un testo preesistente, evocandolo senza necessariamente tradirlo. Oggi questo gioco si chiama twitteratura.it, e dal 10 giugno porterà una vasta comunità di lettori a riscrivere gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. In un certo senso, è un po’ come se il cerchio che iniziammo a percorrere un anno fa riflettendo su Italo Calvino ora si chiudesse.
Alcuni, in Italia, hanno risposto a questo gioco con entusiasmo. Altri invece lo hanno attaccato, affermando che svilirebbe la letteratura. Io penso che gli esercizi di twitteratura – per come noi li intendiamo – abbiano compiuto il piccolo miracolo di fare leggere una manciata di libri in più ad alcuni cittadini del nostro Paese.

In effetti, è difficile comprendere cosa sia uno di questi giochi senza parteciparvi. Ricorrerò così ad un ultimo esempio che vi riguarda da vicino. Si tratta delle locandine pubblicitarie che in Polonia venivano realizzate per promuovere i film stranieri, sostituendo quelle originali provenienti dall’estero. A guardarle oggi, e ricordo di averne viste di bellissime al MOMA di New York nell’autunno del 2009, si può comprendere facilmente che questi piccoli capolavori non tolsero nulla ai film che evocavano, ma semplicemente li aiutarono a varcare più facilmente i confini del vostro Paese.
Insomma, io credo che leggere significhi difendersi dal potere: che lo si faccia sulla carta o su un social network, non conta. Purché lo si faccia.
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(*) Appunti per il convegno “Cesare Pavese tra tradizione e innovazione – Divulgazione culturale ai tempi dei social network: le sperimentazioni di www.twitteratura.it”, Katowice, Università della Slesia, 25 maggio 2013.