Definire e raccontare le frontiere

Josephine Condemi* > Con Laudomia la riscrittura de “Le città invisibili” arriva a (e riparte da) Sud. Reggio Calabria invita le regioni meridionali a raccontare la propria frontiera (vissuta, immaginata) con l’hashtag #Invisibili/Sud. Dal 7 al 16 novembre su Twitter.

Ogni volta che Calvino s’impegna a definire la letteratura, si sofferma sui suoi limiti. Questo potrebbe sembrare ovvio: ogni definizione richiede l’indicazione dei limiti: definire significa (etimologicamente) tracciare dei confini. Tuttavia a tali confini Calvino sembra attribuire una speciale importanza. Detto un po’ grossolanamente, si direbbe che per Calvino la definizione di letteratura sia essenzialmente una questione di frontiera – o meglio, al plurale, di frontiere. (Mario Barenghi, Postfazione, Mondo scritto e mondo non scritto).

Rileggere Le città invisibili da Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Da Sud. Dalla frontiera, dalle frontiere, zone di confine.

Siamo portati a considerare le frontiere essenzialmente come linee di esclusione, ma il termine frontiera rivela qui l’unità della doppia identità, che è a un tempo distinzione e appartenenza. La frontiera è contemporaneamente apertura e chiusura. E’ alla frontiera che si effettuano la distinzione e il collegamento con l’ambiente. Ogni frontiera, compresa la membrana degli esseri viventi, compresa la frontiera delle nazioni, è, oltre che barriera, il luogo della comunicazione e dello scambio. E’ il luogo della dissociazione e dell’associazione, della separazione e dell’articolazione. E’ il filtro che insieme respinge e lascia passare. E’ ciò attraverso cui si stabiliscono le correnti osmotiche e che impedisce l’omogeneizzazione (Edgar Morin, Il metodo vol.1).

L’informazione, intesa come “differenza che genera una differenza” (Bateson, 1977) passa necessariamente dalla frontiera, sensibile al rumore. Frontiera come porta, frontiera come specchio. Seguendo Shannon e Weaver (1949), è il messaggio più inaspettato ad avere maggior quantità di informazione. Ma sarà inaspettato in relazione alla cornice di senso in cui si sviluppa.

Io parlo parlo, – dice Marco – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio (Le Città Invisibili).

Raccontare è, etimologicamente, narrare di nuovo verso qualcuno. Alla frontiera, nella frontiera, i racconti talvolta si mescolano per crearne degli altri. Ma a partire da cosa? La frontiera è opaca:

«D’int’ubagu», dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa di un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l’io che serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è. (Dall’opaco, La strada di San Giovanni)

Alla frontiera la logica binaria salta, ci vuole orecchio. Ma ci si può situare, tentando di definire e raccontare storie che spesso restano #Invisibili. Insieme, tra fuori e dentro. Abitando il tra, dimensione di esistenza.

Josephine Condemi*Josephine Condemi (@JCondemi) – E’ nata e vive a Reggio Calabria, ha studiato a Messina. Giornalista. Appassionata di glocal ed epistemologia della complessità, legge, soprattutto, scrive parecchio e si interroga sulla direzione dello sguardo (josephinecondemi.wordpress.com).