Forme riflesse o disegnate. Quando l’arte diventa verticale. Da Calvino a #Invisibili.
“Oh, l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette”
Holderlin, Iperione
Bild è l’espressione tedesca per “immagine” che presenta, etimologicamente delle ambiguità: bilidi (antico alto tedesco) significa “segno (prodigioso)”, “essenza”, “forma”, dall’altro “immagine, copia, riproduzione”. Da un lato dunque si sottolinea ciò attraverso cui qualcosa riceve la sua forma, dall’altro ciò che tale immagine originaria riproduce, presenta, designa. Dove sta la tua immagine? È presenza o astrazione?
È un’immagine sospesa nello spazio che c’è tra me e un ipotetico specchio. Non è il riflesso, e non sono per forza solo io. È una traduzione di senso che interpreto io tra segni e parole, in cui l’“origine” non è fissa, né obbligata. Il testo non è gregario dell’immagine, e viceversa; sono due che partono da rive differenti e a mezz’oceano si incontrano.

La parola va al largo, in qualche mondo di esperienza e sentimento e visione, e il segno pure dal suo versante: si incrociano in un punto in cui costruiscono qualcos’altro, e allora non possono più esistere distaccati. Nello spazio astratto d’incontro, diventano presenti, parola e segno, in un luogo/linguaggio visivo in cui non sono solo io a essere raccontata, ma – come su tante facce di un prisma – più volti potrebbero specchiarsi. Quello per lo meno è il viaggio desiderato, andare al largo ma anche in profondità, nell’urgenza di partire per trovarsi.
Gli uomini oggi non vivono nel mondo. Non vivono neppure nel linguaggio. Vivono piuttosto nelle immagini del mondo, di se stessi e degli altri uomini che si sono fatti, nelle immagini del mondo, di se stessi e degli altri uomini che sono state fatte per loro. Siamo vittime di questa “immanenza immaginaria”?
Credo che la rappresentazione in segni salvi spesso. L’immagine è amabile, è culla, è conforto in un certo senso, quando la creiamo o scegliamo secondo il nostro desiderio. È come vorremmo essere capiti, percepiti. A volte sfugge di mano, e quell’immagine mangia troppo la realtà che, per forza, è più terrena e senza bugie, così ogni fuga da essa è un distacco in più da noi. Andrebbe irretita, e non essere quello specchio ulteriore che abbiamo costruito a vincere su questo corpo qui, coi piedi a terra.
Qual è il ruolo dell’artista in una società vittima di questa “immanenza immaginaria”?
Salvare quello che resta. Raccontare, illuminare. Moltiplicare le visioni facendo di una cosa un prisma, cosicché non rifletta una luce sola. Come dice Calvino, nella città di Tamara, “Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa”. L’artista lavora su quel raramente.
“La fantasia è un posto dove ci piove dentro”, dice Calvino nel capitolo dedicato alla visibilità delle Lezioni americane. Da dove piovono le tue immagini? Calvino ha probabilmente visualizzato le sue città con immagini mentali che poi ha tentato di tradurre in parole. Con #invisibili abbiamo stimolato un’ulteriore disintermediazione. Che rapporto c’è tra Calvino, i tweet e le tue immagini?

Quella frase la porto con me sin dal primo giorno, forse da liceale, in cui la lessi, comprendendola mano a mano, pioggia a pioggia. Disegnare per me è riflesso storia rifugio esposizione di ciò che è nascosto e invisibile, il più delle volte, e dimenticato come un ombrello appoggiato al muro, tanto per rimanere in tema. E la pioggia subentra spesso nei miei disegni, è ciò che fluisce fuori è la sfumatura che tocca terra e si fa fango. È tangibile e aerea, è tiepida e roboante quando diluvia. È la stessa origine del processo che ti porta a creare. Che può essere danzare su un foglio o scrivere una musica. Le immagini per #invisibili hanno preso un percorso diverso, tutto loro. Sono il frutto di tante piogge negli anni, disegni separati nel tempo che evocano sentimenti disparati situazioni distanti, anche momenti semplici di riflessioni quotidiane. La “magia” che s’è creata è stata trovare per ogni città un disegno che la spiegava – o per ogni disegno una città che lo raccontava. Non si sa chi è nato prima. E il tweet assieme al quale veniva ogni giorno pubblicato il disegno per ciascuna città, era il collante, il ponte tra la barca partita da Calvino e la barchetta di carta-disegnata partita da Nina. Nel tweet si chiudeva il cerchio.
Dal testo di Calvino all’idea fino all’immagine finale, quanto muta il disegno e quanto è decisivo il segno nella tua scrittura visuale?
Per quel percorso al contrario di cui sopra, decisivo è il senso comune, lo scardinare da dentro, scorporare dalla realtà e far divenire astratti e atemporali i disegni, sotto il tetto di quel sentimento simile riconosciuto nelle città invisibili. Rileggevo la città più volte, e man mano si figurava avanti il disegno che la rifletteva, o che la temeva, o che la desiderava. A volte è una voce lontana, a volte aderisce come un foglio bagnato al tavolo. Non parliamo di materia dipinta, di morbidezza di tratto o di pennellate d’acquerello, ma di congiunzioni, di “e”, di ponti tra linguaggi.
“In una galleria di quadri, un uomo guarda il paesaggio d’una città e questo paesaggio s’apre a includere anche la galleria che lo contiene e l’uomo che lo sta guardando.” Qual è la tua 56esima città?
Nelle 55 di Calvino, vago tra i versanti di mare e di terra di Despina, tra i fili di forme in forse di Ersilia e le osmosi di Tamara. Nella mia, che chiamo Ninopoli, costruita forse a testa in giù, cielo e mare si alternano, e la sfumatura tra uno e l’altro non la distingui più. Abito nella carta gialla dei taccuini dai fogli pesanti, e nel blu elettrico di un gessetto che – per quanto provi a ordinare ogni volta i colori che uso – è sempre il primo, il più in alto, il più disubbidiente, che si fa sempre trovare sotto le mie dita.

Francesca Ballarini è illustratrice e visual designer. Si occupa a tempo pieno di figure, e a tempo perso pure. In rete per brevità è chiamata Nina, dal suo blog “Io & Nina”, dove pubblica e scrive le sue figure. Calvino l’ha presa sotto la sua ala, senza saperlo, quando “La fantasia è un posto dove ci piove dentro” le capitò sotto gli occhi da liceale, e man mano l’ha portato con sè, in ogni sua pioggia. Trasportare se stessa, ora, nella deriva disegnata delle città invisibili, chiude un cerchio. Leggero, visibile perché esposto, molteplice, e rapido come un segno sentito e urgente. “È bello appartenere a ciò che t’appartiene”.
[Francesca, nella vita “visibile”, porta Nina in ogni cosa che fa: si occupa dell’immagine della Stagione lirica dello Sferisterio Macerata, disegna per le cantine di vino che guardano oltre, ritrae prodotti tipici cambiandogli senso da brava animista , illustra per il Circuito teatrale del Piemonte, ed è in continuo e libero viaggio in mare].SITO: http://flavors.me/nina – BLOG: http://sinfonina.blogspot.com – Tw: @Francescanina