Qui Manzoni vuole dirci che…

Dunque siamo partiti. I primi tre giorni di #TwSposi sono stati caotici. Per qualcuno troppo. Per me lo sono stati nel modo giusto.

Paolo Costa > L’avvio della riscrittura dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è stato fulminante: quasi un migliaio di tweet al giorno, più del doppio contando anche i retweet. E oltre 450 utenti unici che hanno già utilizzato l’hashtag #TwSposi. Rispetto a #invisibili e agli altri progetti partoriti dalla nostra comunità, si delineano due fatti nuovi.

Il primo è la gioiosa irruzione nella twitteratura degli studenti della scuola secondaria. In realtà c’è un precedente importante, rappresentato da #Basia1000. Lì gli studenti di #unblogdiclasse, coordinati da Elisa Lucchesi (@isainghirami) si applicarono a colpi di tweet a 20 componimenti scelti del Liber catulliano, coinvolgendo nel percorso tutta la comunità di Twitter. Questa volta, però, le scuole sono quindici, fra cui due medie. Ed è stato proprio l’Istituto Omnicomprensivo San Marcello Pistoiese, lo stesso di #Basia1000, a dare il calcio di inizio. Ci sarà tempo per analizzare l’efficacia dell’operazione in termini didattici, efficacia sulla quale confesso di essere molto fiducioso. Intanto la partecipazione dei giovanissimi ha già avuto un effetto. I “vecchi” arnesi della twitteratura – come me – si sono confrontati con un linguaggio e con un modo di stare in Rete diversi da quelli cui sono abituati. D’altronde l’idea che le reti sociali online siano roba da teenager è statisticamente tutta da dimostrare. Dal sito di informazione Huffington Post e da Buffer, un popolare servizio di condivisione di contenuti in Rete, arrivano dati che contrastano con questo luogo comune. Per esempio il segmento demografico che si sviluppa più in fretta non è quello dei ragazzini, ma la fascia di età fra i 55 e i 64 anni. Tale segmento è cresciuto in un anno del 79% su Twitter, del 46% su Facebook e del 56% su Google+

L’impatto transgenerazionale non è stato facile. Si tratta di costruire un ponte fra comunità diverse, per entrare in sintonia con chi è appena arrivato. Qui nessuno è maestro. I “vecchi” (insisto con le virgolette, sennò qualcuno si offende!) hanno da imparare dai giovani. E i giovani potrebbero prendere spunto da chi ha già fatto diverse esperienze simili. Credo che il ruolo degli insegnanti sarà decisivo per stimolare il dialogo fra le classi di cui sono responsabili e il resto del mondo.

In queste ore ho colto lo smarrimento di qualcuno, per un avvio che ha avuto l’aria del primo giorno di scuola: caotico, appunto. Ma chi opera nella scuola sa che il bilancio di un anno si trae alle fine, non il primo giorno. Grande tenerezza per i ragazzini delle medie di Como, che cominciano il loro tweet con “Qui Manzoni vuole dirci che”, per poi accorgersi di essersi bruciati in questo modo 27 caratteri. È il primo giorno. Avranno tempo per esercitarsi nell’arte della scrittura sintetica. Alla fine saranno più bravi dei veterani.

Mi ha poi colpito l’insofferenza allegra di alcuni tweet di #unblogdiclasse per la lentezza dell’incipit, tanto famoso quanto discusso anche dalla critica (già il De Sanctis lo bollava per la sua lunghezza): “Ottima iniezione di sonnifero potente”, “diamo un taglio a queste lunghe digressioni” e “Ci saremmo accontentati di un semplice ‘La storia è ambientata a Lecco’”, cui fa da contrappunto un “La prolissità ora trova spiegazione: era il respiro di Dio”. Che cosa testimoniano, questi frammenti critici? Forse la distanza del gusto contemporaneo dal descrittivismo ottocentesco?

Per non parlare delle due riscritture in siciliano – adorabili! – della 5a D del Liceo Classico Gulli e Pennisi di Acireale:

P.:”Matri mia, chi c’avi?”
D.A.: Nenti bedda, non tu pozzu riri”
P.:”Ma comu non mi rici?”
D.A.:”Ou muta, rammi m’pocu ri vinu”#TwSposi /01″

e

“#TwSposi/1 Don Rodrigo nnamuratu,
Don Abbondio scantatu,
Renzo abbiliatu,
U romanzu è da picca accuminzatu.”

Il secondo fatto nuovo è l’intensità psicologica dell’esperienza che stanno vivendo i personaggi del romanzo “in voce e tweet”, o se preferite i loro interpreti (la cui reale identità non riveleremo neppure sotto tortura). Anche questa è, per molti, un’esperienza inedita: vivere in Rete le spoglie di un personaggio diverso dal proprio sé-del-mondo-reale e interagire con gli altri utenti interpretando il modo di pensare di tale personaggio, l’ideologia, i tic linguistici e financo i sentimenti. Ci si avventura in un mondo scosceso, sul quale Konstantin Stanislavskij (sì, quello del metodo) avrebbe molto da dire. Confessa uno degli attori: “Ho sudato in preda al panico, perché non sapevo chi ero e a chi stavo parlando”. Come se ne esce? Forse il fake è una risorsa terapeutica, come suggeriva già Sherry Turkle in Life on the Screen (1996).

Forse c’è un valore nell’identità molteplice associata all’esperienza online. Pensiamo all’idea di vagabondaggio ontologico profetizzata da Hakim Bey (pseudonimo di Peter L. Wilson) o alle personalità multiple di Allucquère Rosanne Stone. Mi piace pensare che anche questa sia una tattica – in perfetto stile hacktivista – per sgomitare negli spazi angusti del Web 2.0. Il quale ci propone un modo standardizzato di esporci al mondo, fondato su una gamma di scelte limitata e banale. “Se è vero – osserva Geert Lovink in Ossessioni Collettive (2012) – che la differenza tra il reale e il virtuale va riducendosi, e che l’ambito offline e quello online vanno mescolandosi, ciò significa forse che su Internet non possiamo più far finta di impersonare qualcun altro?” Magari con #TwSposi riusciamo a dimostrare il contrario.