#2019SI – Carlo Cassola

Carlo Cassola, La ragazza di Bube, parte seconda, capitolo I (estratto).


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La ragazza di Bube è ambientato in Val d’Elsa. Poco dopo la Liberazione, in un’Italia non ancora pacificata e sotto l’amministrazione delle forze alleate, Bube – giovanissimo ex partigiano comunista – è spinto dai più vecchi e dalle donne di Volterra a farsi Vendicatore delle violenze da loro subite per vent’anni. Dopo essersi fidanzato con Mara, sorella del suo migliore amico ucciso dai fascisti, a San Donato Bube si scontra con un maresciallo dei carabinieri: il maresciallo uccide uno dei suoi due compagni, ma viene ucciso dal secondo; Bube ne insegue il figlio venuto a soccorso del babbo e lo uccide a sua volta. Tornato a Monteguidi da Mara, la accompagna a Colle Val d’Elsa per dirigersi con lei a Volterra in cerca di consiglio. Qui ha inizio la seconda parte del libro.


Lunedì 7 luglio 2014

Il sole era ancora basso sull’orizzonte e un po’ annebbiato. Si vedeva solo la sommità delle colline di fronte, perché la base era cancellata dalla nebbia che indugiava nel fondovalle. Un luccicore sinuoso indicava il corso del fiume.
«Siamo vicini!» gridò Mara eccitatissima. Era andata molte altre volte a Colle, in bicicletta e anche piedi; ma stavolta la gita aveva il sapore di un’avventura.
Sorpassarono un barroccio, poi due contadine che camminavano una dietro l’altra sul bordo erboso, con una cesta in capo e le scarpe in mano; poi tre uomini, che camminavano in mezzo alla strada parlando forte. «Sai che oggi c’è mercato a Colle?» disse Mara. E anche questo la rendeva allegra.
Il falsopiano stava per finire. Colle era nascosta dietro il ciglio: se ne scorgevano solo poche case, e una porta merlata, verso cui puntava diritta la strada. Ma loro presero a sinistra, per un viale di platani, che s’incassò sempre più profondamente tra una forra e un fosso di scarico, di là dal quale si levava il bastione delle case, con le finestre piccole,  i panni tesi, un’aria vecchia e tetra. Descrivendo un’ampia giravolta, il viale sbucò infine nella parte bassa del paese, fra tettoie,  capannoni, piccole ciminiere; e macerie, anche, su cui cresceva un’erbaccia polverosa. Il selciato sconnesso e i passanti sempre più numerosi costringevano Bube ad andare piano e a scampanellare in continuazione.
Scesero in piazza, con gran sollievo di Mara, che cominciava a sentirsi indolenzita. «Io vado a lasciare la bicicletta in sezione; tu aspettami qui con la valigia.»
Bube stette un bel po’ a tornare, ma lei non si annoiò certo: lo spettacolo di tutta quella gente, gente di campagna per lo più, che veniva a fare il mercato, era sufficiente a distrarla. Un uomo la urtò, un altro, che camminava rivoltato indietro, inciampò nella valigia; uscì in un’imprecazione, ma vedendo Mara sorrise: «Per poco non cascavo, bellezza» e lei gradì il complimento.
Arrivò Bube: «La sezione era sempre chiusa, la bicicletta l’ho dovuta lasciare al posteggio.» La prese sottobraccio: «Andiamo a far colazione».
In quel caffè, il migliore di Colle, Mara c’era entrata una volta o due soltanto. I tavolini erano di ferro, coi tondi di marmo; il banco, di legno scolpito. «Ti vuoi sedere?» le domandò Bube. «O si consuma in piedi?» Mara ci pensò un momento: «E’ meglio in piedi» disse. A farla decidere era stata la specchiera annerita dietro il banco.
«Allora che prendi? Un cappuccino? Due cappuccini» disse con tono autoritario. «Serviti, intanto» fece indicando le briosce e le paste disposte nei vassoi di cartone sotto il vetro. Mara provò a far scorrere la lastra, ma spingeva in senso contrario; Bube le venne in aiuto. «Prendi quello che vuoi.» Mara ebbe paura a prendere una pasta, temeva di sporcarsi; si contentò di una brioscia. C’era parecchia gente, e lei stava in soggezione, ma anche questo in certo qual modo era piacevole: le faceva venir voglia di ridere; e poi essendo insieme a Bube non correva rischio di sfigurare, lui sapeva come comportarsi. Era andato alla cassa a pagare e a lasciare la valigia; tornò con lo scontrino, lo posò sul banco, ci mise sopra una moneta. «Grazie signore» fece il cameriere posando a sua volta le tazze fumanti.
«Bube.»
«Che c’è?»
«Sei un tesoro.»
«Parla piano, ti sentono.»
«E che male c’è?» Ma lo sapeva anche lei che non bisogna farsi sentire quando si dicono delle frasi amorose. Il fatto è che la sua non era una vera frase amorosa: piuttosto una espressione di contentezza.


Martedì 8 luglio 2014

Uscirono sotto i portici. «E ora che si fa?» disse Bube.
«Dobbiamo andare al mercato.»
«Per che fare?»
«Prima di tutto per vedere; e poi, non mi avevi promesso di comprarmi le scarpe?»
«Ah, ma mica al mercato; in un negozio. Al mercato vendono solo la roba andante.»
Mara in vita sua aveva fatto sempre le compere al mercato e perciò rimase meravigliata; a vedere, comunque, volle andarci lo stesso.
Il mercato era in una piazzetta quadrangolare limitata da due file di casucce, da un campo di macerie e dalla facciata di un palazzo, coi buchi al posto delle finestre. Bube era un po’ riluttante ad addentrarsi fra i banchetti, in mezzo alla folla dei compratori e dei curiosi; ma lei lo prese sottobraccio dicendogli: «mi piace tanto il mercato».
«Questo è poca roba» disse Bube; «a Volterra è dieci volte meglio.»
«Com’è Volterra? Più grande di Colle?»
«Certo. Molto più grande. Volterra è una città.»
S’erano fermati davanti a un banco di tessuti, e il venditore, un giovanotto alto e bruno, con la camicia a scacchi rossi e blu, gridava raucamente prendendo in mano una pezza, gualcendo la stoffa, mettendola sotto il naso delle persone e poi buttandola da una parte per passare a un altro articolo.
«Favorisca, bella signora, dia un’occhiata qui, per piacere; si avvicini anche lei, bella signorina, mi faccia la cortesia. Questa roba è di prima qualità, roba di prima della guerra; tocchi qui, per favore, la strapazzi pure quanto vuole e mi dia del bugiardo se prende una sola piega…» Mara teneva in mano la stoffa, fingendo di esaminarla; ma Bube le diede uno strattone: «Andiamocene».
«Perché?» fece Mara, seguendo malvolentieri, mentre alle loro spalle seguitava a levarsi la voce del venditore.
«Non mi piace che uno si prenda confidenza con te.»
«Perché m’ha chiamato bella signorina? Ma lo dice a tutte: bella signora, bella signorina…» e si mise a ridere. «Lo dicono magari a certe brutte…» E di nuovo rise. «Che per caso sei geloso?»
«No … Ma non mi piace il modo di fare che hanno.»
«Se dai peso a una parola… sai quante me ne dicono dietro i giovanotti.»
«Fai che ne sento uno, e poi vedi come gliene levo la voglia.»
«E in che modo?» lo stuzzicò lei. «Quello lì hai visto com’era grande e grosso? Aveva certi muscoli…» Gli strinse il braccio: «Tu, povero Bubino, non ce la potresti mica fare».
«E invece, di me hanno paura tutti.»
«Io no» rispose Mara; ma vedendo che egli si scuriva ancora di più: «Su, scherzavo; possibile che tu non sappia stare allo scherzo?».
«Io non scherzo. Non ho mai scherzato, io» aggiunse alzando la voce.
«Eh, lo so… E invece, faresti meglio a prenderle meno sul tragico le cose. Sennò, lo vedi che guai ti capitano?»
«Di che guaio stai parlando?»
«Di quel maresciallo… e del suo figliolo.»
«Oh, ma quella è una faccenda che la aggiustiamo subito. Ci pensa il Partito, ad aggiustarla.»
«Sì, ma intanto t’è toccato scappare.»
Bube si offese alla parola:
«Non sono scappato affatto… Ho girato tutto il giorno per il paese… abbiamo portato il nostro compagno nella Casa del Popolo, gli si è fatta la camera ardente… e i carabinieri se ne stavano rintanati in caserma, e avevano una paura…»


Mercoledì 9 luglio 2014

Uscirono dalla calca e tornarono nella piazza principale. I migliori negozi erano lì, sotto i portici.
«Ora per prima cosa si pensa alle tue scarpe» dichiarò Bube.
Sui tre piani di vetro erano in mostra scarpe di tutte le qualità. Ma lo sguardo di Mara fu subito attratto da una con la pelle a macchie gialle e brune.
«Guarda, Bubino! Ti piacerebbe un paio di scarpe così?»
«Devono piacere a te, non a me» rispose Bube serio.
«Ma anche un pochino a te, no? Non sei contento di vedermi elegante?»
«A me piaci così come sei.»
«Con questi capelli?» civettò Mara. «Sembrano stecchi» e rise.
Bube le guardò i capelli e, quasi ci facesse caso per la prima volta:
«Effettivamente li hai un po’… come i miei. Su, entriamo» disse impaziente.
La commessa era bruna, con un grembiule nero lucido e attillato e la bocca dipinta a cuore.
«Vorrei un paio di scarpe coi tacchi alti» disse Mara.
«Come le desidera?»
«Come quelle che sono fuori.»
«Quali? Ce ne sono tante in vetrina» rispose la commessa.
Uscirono, e Mara indicò la scarpa che le era piaciuta.
«Ah, quelle di pelle di serpente» disse la commessa. «Di pelle di serpente?» fece Mara stupita. E fu lì lì per dirle che ci rinunciava, ma la commessa era già rientrata e aveva tirato giù una scatola.
Provando un po’ di vergogna, Mara su levò le sue scarpacce sdrucite e puzzolenti, e si provò quelle belle scarpe lucide, coi tacchi alti e sottili.
«Ci stai bene?» le domandò Bube.
«Certo che ci sto bene.»
«Allora le prendo. Quanto costano?»
«Milleduecento» rispose la commessa. Bube pagò senza batter ciglio. «Se le lascia in piedi?» domandò la commessa.
«Sì» rispose Mara, e fece per uscire, ma quella la richiamò per consegnarle la scatola in cui aveva messo le scarpe vecchie.
«Speriamo che non sia un serpente velenoso» disse Mara, e rise. «Ma tu, dovevi lasciarmi pagare a me; più di mille non gliene avrei date.»
«Sei matta? Al mercato, puoi tirare sul prezzo; ma mica in un negozio.»
I tacchi alti facevano un rumore secco sull’impiantito a mattonelle. Mara un po’ si guardava le punte lucide, un po’ sbirciava nelle vetrine per vedersi passare. Era tutta un’altra figura che una faceva con i tacchi alti. Intanto, era più alta: mentre prima arrivava poco più su della spalla di Bube, ora gli arrivava all’orecchio. E poi, benché camminando non le riuscisse di specchiarsi bene, era sicura che le forme del corpo venivano messe in risalto.
«Oh,  ma bisogna portare la bicicletta in sezione»  esclamò Bube. «Altrimenti finisce che me ne dimentico.»
«Vai» disse Mara.
«E tu?»
«Io girello per qui.»
Bube restò un momento incerto:
«Ma non ti allontanare, sennò rischiamo di perderci.»
«Non aver paura.»
«Faccio in un momento» disse ancora Bube.
Mara risalì il portico. Si fermò davanti alla vetrina.
«Guarda chi c’è.» Si voltò: era Mauro, in tenuta da lavoro, con uno schizzo di calcina in fronte e la camicia che gli usciva dai calzoni. «Che ci fai a Colle?»
«Niente. Sono insieme al mio fidanzato.»
«Allora è vero che sei fidanzata.»
«Certo che è vero» rispose Mara impermalita.
Mauro la osservava:
«Come ti sei fatta elegante… anche le scarpe coi tacchi alti…»
«Ti piacciono?» disse Mara lusingata. «Sono un regalo del mio fidanzato.»
«E’ ricco il tuo fidanzato?»
«Be’, ricco no; ma insomma, guadagna bene. E sai, basta che gli chieda una cosa, me la regala subito.»
«E tu che gli dai un cambio? Io, se avessi la fidanzata, e mi chiedesse un regalo, le direi: subito bambina mia, però prima voglio qualcosa io.»
«Che cosa?»
«Vai là che hai capito. Be’, io bisogna che me ne vada. Accidenti al lavoro» aggiunse con tono sconsolato.
Mara riprese a girellare. Le sembrava che gli uomini la guardassero con insistenza e ammirazione. A un tratto si accorse di essere seguita. Si fermò davanti a una vetrina. Si fermò anche giovanotto. «Uff!», pensò Mara. Che la guardassero le faceva piacere, ma che le venissero dietro, le seccava e le faceva quasi paura.
Respirò sollevata vedendo Bube; e si affrettò ad andargli incontro.


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