Françoise Kankindi e Daniele Scaglione, Rwanda, la cattiva memoria, Formigine, Infinito edizioni, 2014.
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SABATO 23 AGOSTO 2014 – IL GENOCIDIO VISTO DA MILANO
DANIELE – La sera del 6 aprile 1994 l’aereo del presidente Habyarimana stava rientrando in Rwanda dopo l’ennesimo incontro inconcludente per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Le otto erano passate da una ventina di minuti, quando un missile centrò il velivolo, uccidendo tutte le persone a bordo. Tu come l’hai saputo?
FRANÇOISE – Me lo disse un’amica, anche lei studentessa a Milano. I suoi genitori erano in Rwanda e l’avevano chiamata per avvertirla dei massacri porta a porta, cominciati subito dopo l’uccisione di Habyarimana. Suo padre si chiamava Gahima ed era un noto esponente dell’opposizione. Fu trucidato selvaggiamente. L’8 aprile sui media francesi leggemmo la notizia dell’uccisione della prima ministra, Agathe Uwilingiyimana. Era una hutu, attivista per i diritti delle donne ed era alla guida del governo di transizione che avrebbe dovuto portare il Rwanda a libere elezioni. Ma Uwilingiyimana era vista dagli estremisti come il fumo negli occhi. Già in precedenza, come ministro dell’Istruzione, era stata aggredita quando aveva proposto di rivedere il sistema discriminatorio di accesso alla scuole. Ora, in qualità di capo del governo, era in prima linea per far sì che gli accordi tra l’esecutivo di Kigali e il Fpr venissero rispettati, il che avrebbe forse aperto al Rwanda un futuro di convivenza pacifica tra hutu e tutsi. Assieme a lei furono uccisi dieci caschi blu belgi mandati a proteggerla e tutti i maggiori esponenti dell’opposizione, per la maggior parte hutu, nonché quei membri del governo di transizione che, come la prima ministra, sostenevano gli accordi di Arusha. Queste uccisioni confermano una volta di più che la cosiddetta questione etnica non aveva alcun senso. La guerra civile e i massacri compiuti nella sua ombra erano dovuti esclusivamente a lotte di potere. Il clan Akazu non era disposto a dividere i privilegi che deteneva da anni neppure con gli hutu di gruppi diversi. Noi rwandesi a Milano eravamo in ansia anche per quel contingente di soldati del Fpr che s’era insediato nel cuore di Kigali, proprio nella sede del parlamento. Ormai erano accerchiati e fu solo per un miracolo che si salvarono.
DANIELE – Avevi dei famigliari per i quali eri preoccupata?
FRANÇOISE – Sì. Quelli più stretti erano in Burundi, a eccezione di mio fratello, che combatteva con il Fronte; ma tutti i fratelli e le sorelle di mia madre, con i loro figli, si trovavano a Butare, la seconda città più importante del Rwanda, sede dell’università nazionale. Anche mio padre aveva delle sorelle che vivevano con le loro famiglie nella capitale.
DANIELE – Nei primissimi giorni del genocidio, le uccisioni sono state mirate. I massacratori andavano a scegliere le vittime con scrupolo. Gli stessi dieci caschi blu della scorta di Uwilingiyimana sono stati uccisi dall’esercito rwandese non perché avevano cercato di difendere la prima ministra: la loro morte doveva far scappare i soldati belgi, che erano la spina dorsale della missione Onu. Si volevano spaventare gli occidentali, tant’è che altri cinque caschi blu ghanesi di scorta alla donna furono lasciati andare senza problemi. E il piano funzionò a meraviglia, perché di lì a poco il Belgio ritirò i suoi soldati, dando il via al disimpegno delle Nazioni Unite. Ti rendevi conto, da Milano, che il tuo popolo stava per essere abbandonato dalla comunità internazionale?
FRANÇOISE – Assolutamente no! Fino all’ultimo abbiamo sperato nell’applicazione degli accordi di pace di Arusha. Ci saremmo aspettati di tutto, tranne che gli estremisti dell’hutu power e dell’Akazu sacrificassero Habyarimana, il loro leader storico, e che l’Onu ritirasse quasi tutto il contingente militare malgrado le uccisioni porta a porta. Mai mi sarei aspettata che le nazioni “patria” dei diritti umani avessero l’insensibilità e la faccia tosta di portare via soltanto gli occidentali, lasciando dietro di sé donne e bambini, indifesi davanti alla furia genocida degli hutu interahamwe.
DANIELE – Sull’abbattimento dell’aereo del presidente s’è discusso e speculato molto. Per quanto riguarda le conseguenze sul genocidio, credo che la cosa non cambi il quadro più di tanto: l’attentato ad Habyarimana era solo il via libera per la carneficina, secondo un piano ormai pronto in ogni dettaglio. Però c’è chi ha detto che ad abbattere il velivolo sia stato il Fpr.
FRANÇOISE – Ormai è noto come quella tesi fosse infondata. A sostenerla erano in molti, tra cui un giudice di Parigi, Jean Louis Bruguière, che fu incaricato dell’indagine, perché tra le vittime dell’attentato vi erano dei cittadini francesi. Il Falcon colpito, infatti, era un regalo di François Mitterand ad Habyarimana, equipaggio incluso. Bruguière sostenne che i missili erano stati sparati dalla collina di Masaka da un commando del Fpr e nel novembre del 2006 emise nove mandati di cattura nei confronti di altrettanti alti dirigenti del Fronte, tra cui Paul Kagame, ormai diventato presidente del Rwanda. Ma l’indagine è stata riaperta e i nuovi giudici francesi incaricati, Marc Trévidic e Nathalie Poux, hanno presentato il 10 gennaio 2012 un rapporto balistico che dimostra come, “senza alcun dubbio”, i missili erano stati sparati dal campo militare di Kanombé, allora sotto il controllo delle forze armate rwandesi. La tesi secondo cui ad assassinare il presidente era stato il Fpr permetteva di spiegare il massacro come una reazione irrazionale degli hutu che, di fronte alla morte del loro amato presidente, si sarebbero vendicati uccidendo tutti i tutsi! Una tesi che faceva comodo a molti: sicuramente ai massacratori, ma anche a coloro che li avevano sostenuti sino all’ultimo, come il governo francese, e a coloro che avevano boicottato ogni possibilità d’intervento della comunità internazionale, come gli Stati Uniti. Costoro preferivano negare che lo sterminio fosse stato realizzato con piani accuratamente preparati da tempo.
DANIELE – In effetti, la tesi che giustifica i massacri come risposta all’uccisione del presidente è stata sostenuta anche dal colonnello Theoneste Bagosora, capo di gabinetto del ministero della Difesa nel 1994 e poi uomo forte nel governo genocida insediatosi dopo l’uccisione di Habyarimana. Tradotto davanti al Tribunale penale internazionale per il Rwanda – insediatosi ad Arusha, la stessa città in cui s’erano svolti i colloqui di pace – Bagosora usò quest’argomento proprio per sminuire il proprio ruolo che, invece, sappiamo essere stato centrale, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “architetto del genocidio”.
FRANÇOISE – Durante i lavori della Corte internazionale ad Arusha, sull’attentato era infatti stata fatta chiarezza. Secondo il suo portavoce di allora, Everard O’Donnell, già nel 2006 il Tribunale internazionale aveva in mano prove secondo cui i missili contro l’aereo presidenziale erano stati lanciati dalla zona controllata dalle forze armate rwandesi.
DANIELE – In ogni caso, il comportamento di Habyarimana non era certo quello di un leader forte. Si esprimeva spesso in modo ambiguo, caratteristica di chi si barcamena in una posizione di debolezza. Ad Arusha, Habyarimana firmava documenti che, una volta tornato a Kigali, definiva semplici “pezzi di carta”.
FRANÇOISE – È vero, il presidente smentiva sistematicamente quanto aveva concordato al tavolo delle trattative. Ma è anche vero che in queste trattative lui ci metteva la faccia, davanti a tutta la comunità internazionale. I suoi fedelissimi ne percepivano la debolezza e per questo decisero di eliminarlo e strumentalizzarne la morte per ottenere il sollevamento popolare di tutti gli hutu contro i tutsi. Un istante dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale, con una velocità straordinaria vennero montate barriere a ogni angolo di strada, per togliere ai tutsi qualsiasi possibilità di fuga. Si calcola che l’80 per cento delle vittime fu sterminato nel primo mese di genocidio. Una velocità nelle uccisioni cinque volte superiore a quella dei nazisti contro gli ebrei.
DANIELE – Uno dei libri più importanti per la ricostruzione del genocidio, mai pubblicato in Italia, l’ha scritto Alison Des Forges per conto dell’associazione Human Rights Watch. Il titolo di questo rapporto è Leave None to Tell The Story, che potremmo tradurre come Nessun testimone deve sopravvivere, a riassumere l’intenzione dei genocidi di compiere uno sterminio totale. Un capitolo di questo libro s’intitola “Aprile, il mese che non voleva finire”. Com’è stato il vostro aprile, a Milano? Soprattutto: parlavate con altri italiani, vi chiedevano notizie? O almeno vi ascoltavano?
FRANÇOISE – I ricordi sono terribili. Un aprile maledetto, con quelle immagini di cadaveri che riempivano i fiumi d’acqua rossa per il sangue uscito dalle ferite inferte con i machete… Alcune notti mi si ripresentano davanti. In quel periodo, le persone con cui vivevo non riuscivano a sostenere il mio sguardo. Ricordo la frustrazione che sentivo quando, di fronte al mio tentativo di spiegare che non era uno scoppio irrazionale d’ira tra hutu e tutsi, cambiavano discorso. Trovavo rifugio negli incontri con gli altri rwandesi a Milano, che però si tenevano solo nei fine settimana. Eh sì, malgrado il dramma che stavamo vivendo, chi lavorava doveva presentarsi in ufficio, così come noi studenti continuavamo a frequentare le lezioni. Andavamo avanti nella nostra vita, ma con la morte nell’anima. Il telegiornale serale era diventato il mio incubo peggiore, sembrava che lo facessero apposta a riversare tutti quegli orrori davanti ai miei occhi durante la cena. La madre di mio cognato, con cui vivevo, tentava di cambiare canale ma quando ormai avevo visto le prime immagini insistevo per sentire le notizie fino in fondo. Ricordo la rabbia e la frustrazione che provai quando fu trionfalmente annunciata l’avvenuta evacuazione degli occidentali. Per me significò che i più importanti rappresentanti della comunità internazionale benedicevano l’inizio dei massacri della mia gente. Come si poteva essere così superficiali? Come si potevano lasciare donne e bambini in balìa degli assassini armati di machete, granate, fucili, eccetera? Come facevano, gli italiani, a sentirsi con la coscienza a posto soltanto perché i loro soldati avevano salvato i loro compatrioti e altri occidentali? E il “mai più” della Convenzione contro il genocidio del 1948? Quel documento non valeva nemmeno la carta su cui era stato scritto?
DANIELE – A guardare la vicenda del Rwanda verrebbe da definire “carta straccia” anche quella su cui è stato redatto lo stesso statuto delle Nazioni Unite. L’Onu ha istituito parecchie giornate commemorative: quella dei diritti umani, quella della lotta all’Aids, quella della giustizia sociale, una sulla stessa memoria del genocidio in Rwanda… Ma in quest’ampio numero di ricorrenze, a mio avviso, ne manca una, da celebrarsi il 21 aprile. In quel giorno del 1994, il Consiglio di sicurezza discusse la situazione in Rwanda. Da settimane il generale Romeo Dallaire chiedeva rinforzi, perché i circa 2.500 soldati che aveva a disposizione non erano sufficienti per fermare i massacri. Ne sarebbero serviti almeno altri 4.000, che non erano davvero molti, a confronto con quelli allora impiegati in altre operazioni dei caschi blu. Il Consiglio non solo non li inviò, ma tolse dal Rwanda quasi tutti i militari già dispiegati: la decisione fu di lasciare sul campo 270 soldati a mediare tra le parti in conflitto (in realtà ne restarono 454, ma solo perché alcuni caschi blu ghanesi non se la sentirono di abbandonare i rwandesi al massacro). In poche parole, di fronte a un genocidio il Consiglio di sicurezza optò per la fuga. Credo, allora, che dovrebbe essere istituita la “giornata della vergogna”, e che dovrebbe essere celebrata ogni 21 aprile, perché niente come quello che accadde quel maledetto giorno del 1994 dimostra quanto i solenni “mai più” proclamati all’indomani della seconda guerra mondiale non fossero altro che chiacchiere a vuoto. Eppure, coloro che presero la decisione di ridurre a un decimo il contingente di pace in Rwanda, non solo non se ne vergognano ma hanno fatto quasi tutti un’ottima carriera.
FRANÇOISE – La proposta d’istituire “la giornata della vergogna” mi trova molto d’accordo: potrebbe servire a far riflettere sugli errori che hanno causato o permesso crimini contro l’umanità e quindi a intavolare qualche dibattito sulle lezioni apprese e soprattutto su quelle non apprese. L’Onu non potrà continuare a mancare i suoi obiettivi senza che ci sia alcuna conseguenza: deve funzionare almeno come ombrello umanitario, laddove migliaia di persone sono a rischio. Il genocidio del 1994 ha segnato un momento terribile per il diritto internazionale, che è stato umiliato dal teatrino messo in scena per evitare un intervento che poteva risolvere una crisi di enormi dimensioni.
#CattivaMemoria continua domenica 24 agosto 2014 con il brano Memoria e narrazione