Françoise Kankindi e Daniele Scaglione, Rwanda, la cattiva memoria, Formigine, Infinito edizioni, 2014.
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VENERDI’ 22 AGOSTO 2014 – PRIMA DEL CROLLO: VITA DA PROFUGHI IN BURUNDI
DANIELE – Dov’eri e che cosa stavi facendo, nel gennaio del 1994?
FRANÇOISE – Mi trovavo a Milano, dove studiavo Economia e commercio all’università Cattolica. Ci ero arrivata nel giugno 1992 e vi conducevo una vita normale, come i miei compagni di facoltà. Ma venire a studiare in Italia non era stata una libera scelta. Arrivavo dal Burundi, dove la mia famiglia s’era rifugiata dopo le prime avvisaglie del genocidio dei tutsi in Rwanda. I primi studi li ho dunque fatti a Bujumbura, dove la situazione non era affatto semplice. Pur avendo ottenuto la maturità al Liceo Saint Esprit con il più alto punteggio della scuola, avevo pochissime possibilità d’essere ammessa alla facoltà di Economia o a quella di Medicina, le due discipline che volevo studiare. Questo perché ero considerata straniera, malgrado fossi nata in Burundi. La mia famiglia era rwandese, perciò non mi era riconosciuto il diritto di cittadinanza. Eravamo in molti ragazzi a vivere questa discriminazione negli studi, che ci rendeva impossibile arrivare all’università. Gli ostacoli li incontravamo molto presto, nel sistema educativo del Burundi. Al termine della scuola primaria, quelle che in Italia sarebbero le elementari, per passare alle medie si doveva sostenere un esame di Stato. Solo che, per superarlo, i ragazzi burundesi dovevano conseguire un risultato positivo compreso tra il 38 e il 45 per cento, mentre per noi stranieri era necessario arrivare al 70-80 per cento.
DANIELE – Quindi, i tanti tutsi che fuggivano dai massacri in Rwanda degli anni Settanta, tra cui la tua famiglia, il Burundi li aveva sì accolti, però li discriminava.
FRANÇOISE – Sì, eravamo stranieri “non voluti”, “non graditi”, ragazzini inclusi. In virtù del meccanismo delle soglie differenziate, infatti, io non fui promossa benché fossi la prima della classe e avessi conseguito il punteggio più alto di tutti. Lo furono invece i miei compagni burundesi, pur avendo ottenuto un punteggio decisamente inferiore al mio. Avevo tredici anni e fu in quel momento che presi coscienza della mia condizione: vivevo in un Paese dove io e gli altri profughi non saremmo mai stati uguali ai cittadini burundesi. Mi scoraggiai al punto di non volere più tornare a scuola. Ma il mio professore, un burundese, era molto dispiaciuto nel vedere il mio talento sprecato e così venne a prendermi a casa e mi riportò in classe. Non dimenticherò mai quel giorno: mi sentii apprezzata, mi ricaricai d’energia, mi tornò la voglia di provare. Dovetti ripetere un intero anno scolastico ma, alla fine, dopo questo secondo tentativo riuscii a passare la soglia dell’80 per cento. Fu bellissimo, ero felice ed eccitata: anch’io sarei andata al collegio e i miei mi avrebbero comprato una valigia, scarpe e vestiti nuovi. Finalmente era arrivato per me il tempo di uscire di casa, di diventare un’adolescente che avrebbe affrontato la vita assieme ad altri ragazzi nel collegio in cui avremmo vissuto, e da cui saremmo tornati a casa solo ogni trimestre. Avevo sognato questo momento: sarebbe stata la scoperta di nuovi orizzonti. Per andare al collegio avrei intrapreso per la prima volta un viaggio fuori città, avrei preso l’autobus a lunga percorrenza.
Ma mi stavo illudendo. Nonostante il mio impegno, l’aver ripetuto un anno e ottenuto un ottimo risultato, a noi stranieri venne proibito di andare all’internat, un collegio delle scuole pubbliche. Fui invece mandata in una scuola autogestita da rwandesi per accedere alla quale non c’era bisogno di superare nessun concorso. La differenza tra le due scuole era forte: nei licei statali la retta era minore, i libri erano garantiti dal ministero dell’Istruzione e i professori erano remunerati dallo Stato. Invece, alla Mpunzi School – letteralmente, la scuola dei profughi – insegnavano i professori rwandesi che, nei ritagli di tempo e dopo essersi guadagnati lo stipendio nelle scuole statali, prestavano volontariato per garantire ai loro fratelli il diritto allo studio. Era il 1983 e io iniziavo questa scuola che ebbe per la mia formazione una grandissima importanza. Non vi studiai solo le classiche discipline; fu anche il posto dove io e altri figli di rwandesi espatriati capimmo chi eravamo davvero, cioè dei ragazzi senza una patria in grado di garantirci un futuro. Così cominciammo a riflettere sul nostro rientro in Rwanda, il Paese da cui i nostri genitori erano stati costretti a scappare solo perché tutsi.
DANIELE – Tu cosa sapevi della prima ondate di massacri? I tuoi genitori ti parlavano di quello da cui erano fuggiti?
FRANÇOISE – Alcune sere mio padre ci raccontava le violenze che l’avevano obbligato ad abbandonare in fretta e furia le sue terre. Tutto iniziò nel 1959. Gli anni del colonialismo belga stavano finendo, e i movimenti e i partiti d’ispirazione hutu cominciavano a dare la caccia ai tutsi per toglier loro il potere che avevano esercitato prima sotto la monarchia e poi sotto la colonizzazione. La famiglia di mio padre abitava a Mugogwe, nel sud del Paese. Era una famiglia ben nota: quattro figli maschi, con i tre maggiori insegnanti – tra cui mio padre – e il più piccolo che studiava al seminario. In quel periodo le donne e i bambini erano molto meno in pericolo. Quando i massacri iniziarono, mio padre e i suoi fratelli presero l’abitudine di nascondersi di giorno nella boscaglia, per poi tornare a casa a notte fonda, così da poter mangiare qualcosa e stare un po’ con la famiglia. Mia madre aveva ritenuto più prudente rifugiarsi dai suoi genitori, che abitavano in una collina a maggioranza tutsi dove le violenze non erano ancora iniziate. Ma poi ci fu il primo tragico evento che colpì la mia famiglia. La moglie del fratello maggiore di mio padre, incinta, partorì. Mio zio Sebaganji volle restarle vicino, ma così venne allo scoperto, fu preso dai massacratori e ucciso. Mio padre raggiunse mia madre e di lì a poco lui e le famiglie dei suoi fratelli presero la strada dell’esilio. Era il 1961 e mio padre si unì alla sorella in Burundi, mentre mia madre rimase ancora qualche tempo con i miei nonni, insieme ai miei tre fratelli maggiori. Il secondo, fratello di mio padre, Butera, se ne andò in Uganda; il più piccolo, Ndereya, raggiunse una loro sorella che viveva anche lei in Burundi ma poi proseguì fino in Tanzania. Erano momenti molto difficili: gli estremisti hutu saccheggiarono e portarono via le case ai miei, occuparono le loro terre, rubarono le loro mandrie. Per salvarsi non c’era alternativa alla fuga e così, in tempi diversi, andarono tutti in Burundi. Ma anche lì la situazione non era semplice. Mio padre aveva trovato lavoro in un ufficio delle Nazioni Unite ma poi lo perse, perché rwandese, e da lì in avanti sbarcare il lunario divenne per noi difficile.
#CattivaMemoria continua sabato 23 agosto 2014 con il brano Il genocidio visto da Milano