In Rwanda, la cattiva memoria, Françoise Kankindi e Daniele Scaglione raccontano il genocidio del 1994, facendo luce sulle responsabilità delle Nazioni Unite, della Francia e degli altri Paesi occidentali.
Dopo aver letto e riscritto insieme su Twitter alcuni brani del libro (Formigine, Infinito Edizioni, 2014) con l’hashtag #CattivaMemoria e aver intervistato Daniele, intervistiamo Françoise e chiediamo a entrambi che cosa pensano di questa esperienza di lettura collettiva del loro testo.
In Cattiva memoria emergono con chiarezza le responsabiltà della Francia, e in particolare dell’ex presidente François Mitterand. Se il genocidio in Rwanda non fu isteria collettiva, ma un’azione scientemente pianificata – tanto che prima dell’aprile 1994 il governo acquistò centinaia di migliaia di machete dalla Cina – perché le responsabilità della comunità internazionale sono tuttora ignote ai cittadini europei?
Per gli stessi motivi per i quali i cittadini europei vengono sapientemente tenuti all’oscuro delle nefadenze che i propri governi commettono da anni in Africa. Spesso i mezzi d’informazione non fanno il loro dovere nell’informare correttamente l’opinione pubblica, anzì spesso e volentieri politici e giornalisti si trovano sulla stessa lunghezza d’onda. Per quanto concerne il genocidio dei Tutsi in Rwanda le grande testate, soprattutto quelli francesi, hanno dimostrato di non essere indipendenti dall’Eliseo. Ciò è stato ampiamente documentato nel libro di di Jean-Paul Gouteux «Le Monde», un contre-pouvoir?: désinformation et manipulation sur le génocide rwandais, (Paris, L’Esprit frappeur, 1999). L’autore fu denunciato per diffamazione e ne uscì vincitore. Per quanto concerne i giornali italiani, la maggior parte riprese la versione dello scontro tribale e scoppio d’ira irrazionale tra selvaggi e liquidò il tutto il più velocemente possibile. Tali media riservano esigui spazi di approfondimento a quanto succede nei lontani paesi africani, per di più rilegati a tarda notte; ne consegue che difficilmente il pubblico può essere informato sulle responsabilità e sulle vere cause del genocidio, malgrado la sfilza di libri e documentazione ormai di dominio pubblico.
Alla fine del conflitto, il Rwanda si trovò di fronte al bisogno di fare giustizia e a una tale quantità di processi che, – a quanto scrivi – per processare tutti i carcerati accusati di genocidio ci sarebbero voluti centocinquanta anni. Perché il Rwanda non scelse l’amnistia? Cosa è un gacaca e perché ritieni che non sia uno strumento di giustizia sommaria?
Dal 1959, i goveni Hutu che si erano succeduti dopo la colonizzazione avevano organizzato sistematici massacri dei Tutsi, senza che nessuno fosse mai processato per tali crimini, anzi: venivano promossi quelli che avevano uccisi più “scarafaggi”! Applicare l’amnistia dopo il genocidio del 1994 avrebbe voluto dire continuare sulla linea dell’impunità. Il Rwanda del dopo genocidio ha scelto di rompere la spirale di violenze ricorrendo alle nostre tradizioni. I Gacaca rappresentano un antico modello di giustizia rwandese: erano ampiamente diffusi prima della colonizzazione e hanno sempre garantito una giustizia riparativa-inclusiva, senza dover ricorrere al sistema carcerario europeo: il primo carcere, in Rwanda, data al periodo coloniale. La prima funzione che hanno garantito i Gacaca è stata la ricostituzione del tessuto sociale lacerato dopo il genocidio. Sono organizzati sui prati (‘gacaca’, in kinyarwanda) dei villaggi con la partecipazione della popolazione: i colpevoli confessano i propri crimini che vengono avallati o meno dalla comunità presente per poi ricevere la sentenza, che nella maggior parte dei casi è tesa a reintegrare il colpevole nella società. Oggi grazie ai Gacaca il Rwanda è rinato, sulle colline la gente è ritornata a convivere senza che ci siano tutsiland e hutuland, come proponevano gli esperti occidentali. Affermare che i gacaca siano degli strumenti inadeguati in quanto soluzioni del tutto fuori dal modello europeo è al quanto discutibile e ingeneroso verso antiche usanze di un popolo dal quale tra l’altro si potrebbe imparare qualcosa.
L’Occidente e l’Europa che vendono armi ai paesi africani amano liquidare i problemi africani con un retropensiero atroce: “Sono negri, lasciamo che si ammazzino”. Perché la storia dei paesi africani e dei suoi popoli ci sono del tutto ignote, e l’Africa ci appare come una massa indistinta di poveri, rispetto alla quale l’Europa non fa che chiudere le frontiere salvo poi manifestare temporanee crisi di commozione?
L’Africa è in assoluto il continente più ricco di materie prime, che l’occidente si è sempre procurato gratuitamente e usando qualsiasi mezzo. La storia degli imperi pre-coloniali non viene neppure insegnata nelle scuole italiane e l’immaginario collettivo è ancora dominato dagli scritti di antropologi che hanno sdoganato l’idea dei negri selvaggi, che venivano persino esposti in zoo umani in cui famiglie di neri erano esibite alla stregua delle scimmie! Oggi vengono finanziate guerre tra popolazioni che hanno convissuto per millenni in pace e ciò permette alle potenze ex colonizzatrici di continuare ad approvvigionarsi di materie prime indispensabili all’industria occidentale in scambio di armi e bombe. E’ ora di smetterla con la finta commozione e rimuovere l’immagine della buona Europa che spende miliardi di aiuti ai paesi africani, non è affatto così. Ciò che si ruba all’Africa con accordi bilaterali e finta cooperazione è molto di più di ciò che si rimette al nostro continente. La nostra gente soffre di povertà e carestie per il malgoverno di leader corrotti e mantenuti al potere dai loro alleati europei, che li forniscono di armi e assistenza militare. Non parliamo poi del fallimento dei fondi a favore dei bambini poveri, vero business della Chiesa Cattolica e delle ONG: altro non sono che quella “Carità che uccide”, come dimostrato nel l’omonimo libro di Dambisa Moyo, nota economista dello Zambia. Se l‘Europa chiudesse davvero le proprie frontiere in entrambi i sensi, non solo ai profughi in fuga dalle guerre da essa finanziate, ma anche e soprattutto alle armi in uscita dalle proprie industrie che ne sono la vera causa, forse un futuro migliore potrebbe prospettarsi per il nostro continente.
La cattiva memoria si alimenta anche fra chi cerca di ricordare? Nel tentativo di rendere divulgabile il genocidio in Rwanda spesso lo si paragona alla Shoah, mentre il film più popolare su questo fatto storico – Hotel Rwanda – sembra aver descritto come un santo un albergatore che in realtà avrebbe sfruttato il terrore di centinaia di cittadini ruandesi per arricchirsi mentre li metteva in salvo. Cosa dobbiamo fare, allora, per ricordare?
Bisogna inanzitutto stare attenti al negazionismo che speso viene sapientemente divulgato, mettendo sullo stesso piano le vittime e i carnefici. Così come durante il genocidio ci furono giornalisti che riferirono dello scontro tribale e di uno scoppio d’ira irrazionale ignorando i preparativi della macchina genocida, ci sono stati altrettanti scrittori che hanno cercato di sdoganare la tesi del doppio genicidio tanto caro alla cricca di Mitterand. L’eroe propinato dal film Hotel Rwanda, tra l’altro contestato dai sopravvissuti dell’Hotel Milles Collines, non ha fatto altro che usare la fama procuratagli dal film Hotel Rwanda per contestare l’attuale governo rwandese e proporsi come un leader politico alleandosi persino con alcuni ex genocidari. Per ricordare non ci vuole molto, ci sono tanti sopravvissuti che cercano con molta fatica di raccontare l’orrore che hanno vissuto: ascoltiamoli, leggiamo le loro storie, ne hanno tra l’altro bisogno per ricostruirsi. Per quanto mi concerne, faccio questo da tanti anni leggendo i libri di Yolande Mukagasana, di Esther Mujawayo, di Scholastique Mukansonga e tanti altri rescapés miracolosamente scampati all’eccidio delle loro famiglie,
Ora che il nostro esercizio di lettura e riscrittura di #CattivaMemoria su Twitter si è concluso, posso chiedere a entrambi cosa ve ne è parso?
Daniele – E’ stato molto emozionante ed estremamente utile. Quando scrivo, lo faccio per due motivi: capire e condividere. Queste tre giornate mi hanno aiutato in entrambe le cose. Ci sono messaggi che mi hanno fornito punti di vista diversi, altri che mi hanno informato di cose che non sapevo. Tutti mi hanno convinto che è importante continuare ad approfondire e raccontare la storia del Rwanda e so che, dopo questa lettura collettiva, ci sono altre persone che vorranno farlo. Miglioramenti? Rifatelo, rifacciamolo. Sul Rwanda stesso, magari in occasione del 7 aprile, o su altre storie di ingiustizia e diritti negati. I libri non mancano, la formula può essere analoga – pochi giorni ben introdotti da video e interviste – e ce n’è un enorme bisogno.
Françoise – Ho scoperto un mondo nuovo, di gente che legge e si appassiona, insomma una categoria in via di estinzione! I vari messaggi mi hanno fatta sentire davvero condivisa e ho toccato con mano l’obiettivo per il quale abbiamo scritto il libro, cioè ovviare all’oblio della mia gente trucidata per essere nata Tutsi. Ringrazio tutti di cuore per questo bel risultato, mi ha dato la carica per non smettere mai di testimoniare!
Françoise Kankindi (@FKankindi) – Presidente dell’associazione Bene Rwanda, Francoise Kankindi è figlia del primo genocidio del 1959. Nata già profuga in Burundi, dove il padre si è rifugiato per scampare ai massacri, lì compie gli studi elementari e superiori. Come straniera non ha né diritto di cittadinanza né il diritto di studiare. Nel 1992 si trasferisce in Italia per iniziare l’università perché sua sorella ha sposato un italiano. Nel 1994 segue da Milano il genocidio, mentre la famiglia della madre e i fratelli del padre vengono tutti sterminati. Si laurea all’Università Cattolica di Milano in Economia e Commercio, lavora alla SAP Italia come consulente poi si trasferisce a Roma per lavorare come funzionario alle Poste Italiane, si posa e con i suoi amici ruandesi fonda l’associazione Bene Rwanda Onlus. Ha scritto il libro “Rwanda, la cattiva memoria” con Daniele Scaglione in occasione del ventennale del genocidio dei Tutsi in Rwanda.