Alcuni mesi fa Giuseppe Sciara si è cimentato con la divulgazione su Twitter del pensiero di Machiavelli: gli abbiamo chiesto una riflessione sulle opportunità e sulle insidie di questo strumento, a partire dalla necessità di contestualizzare un’opera nella sua epoca.
Dal 18 novembre al 10 dicembre 2013, hai riscritto su Twitter Il Principe di Niccolò Machiavelli: hai svolto un esercizio di riscrittura individuale e assai intenso. Quale è stato l’aspetto più difficile, e quale quello più gratificante?
Premetto anzitutto che l’impresa si è rivelata più impegnativa di quanto credessi. Twitter è un mezzo assai stimolante per la divulgazione della cultura e per rileggere opere fondamentali della nostra letteratura. Tuttavia – e chiunque si sia cimentato con i vostri progetti di twitteratura lo sa bene – ci si trova di fronte a un limite invalicabile, quello dei 140 caratteri, che inevitabilmente condiziona qualsiasi tentativo di riscrittura. Nel caso del Principe che, per la sua prosa concisa e tagliente è in un certo senso lo scritto ideale per un’operazione del genere, il rischio più grande è stato quello di ridurre il pensiero machiavelliano a facili slogan. Del resto fin dall’anno della sua pubblicazione (1532) l’opera si è rivelata un reservoir perfetto da cui attingere massime e aforismi facilmente spendibili nelle più svariate occasioni: è stato proprio questo ciò che ho tentato di evitare. Quanto all’aspetto gratificante, a parte il piacere di celebrare pubblicamente il cinquecentenario della prima stesura (1513) di una delle mie opere politiche preferite, mi ha stupito l’interesse che si è creato attorno a questo progetto: sono partito in solitaria, ma ho incontrato lungo la strada diversi compagni di viaggio che hanno cominciato a seguirmi, fornendomi spunti di riflessione importanti per capire in che modo l’opera venga letta dai non addetti ai lavori. In questo senso direi che #machiavelli500 è stato per me da una parte un’interessante palestra per rileggere con lucidità il testo machiavelliano, dall’altra un’occasione di crescita per guardare alle tematiche di cui si occupa la mia disciplina, la storia del pensiero politico, da una diversa prospettiva.
Ne Il principe, Machiavelli descrive il potere e i mezzi per raggiungerlo in sé e per sé, nelle sue dinamiche intrinseche e a prescindere da una dimensione che definiremmo morale. In una società dominata dai media, leggerlo è un antidoto a disposizione di un popolo di spettatori?
Il tuo riferimento al “popolo” mi fa subito venire in mente quella lettura “obliqua” e repubblicana del Principe – che ha avuto grande fortuna fin dal Sei-Settecento e che oggi continua ad affascinare alcuni studiosi – secondo cui l’opera sarebbe stata scritta per svelare al popolo gli intrighi e le dinamiche del potere. Dal canto mio, sono sempre stato più incline, anche grazie alla lezione del mio maestro Enzo Baldini (uno dei più importanti studiosi del pensiero politico del Cinque e Seicento), a interpretare l’opera come il più eloquente “manifesto” di realismo politico. L’idea di “nuclearità” della politica, autonoma rispetto alla morale, e la volontà di Machiavelli di andare “drieto alla verità effettuale della cosa” piuttosto che fermarsi “all’immaginazione di essa” mi sono sempre sembrati i messaggi più importanti e autentici del Principe. In questo senso sì, penso che l’opera abbia una carica disvelatrice che può tornare utile in una società massificata come la nostra, ma non bisogna sopravvalutare questo aspetto: l’opera è stata scritta ad uso e consumo del “principe nuovo”, di colui cioè che ha acquisito il potere e vuole mantenerlo. Perché, sembra dirci Machiavelli, nessuno ti obbliga a fare il principe, ma se decidi di farlo devi essere pronto, quando le circostanze lo richiedono, a dannarti l’anima, o per usare le sue parole, a “intrare nel male, necessitato”.
Dopo le grandi dittature del XX secolo il mondo sembra entrato in un’era di conflitto invisibile e permanente. Perché gli istinti e i vezzi della politica individuati da Machiavelli nell’Italia del Rinascimento dovrebbero ancora esser validi in un contesto geopolitico assai più esteso?
Come avrai capito, sono convinto che sia sempre indispensabile contestualizzare un’opera nella propria epoca, per non far dire all’autore cose che non si sarebbe sognato mai di dire. Tuttavia, credo che un classico sia tale quando riesce a comunicare messaggi forti al di là del proprio tempo. E, nel leggere il Principe, se da una parte appare difficile accogliere in toto la filosofia della storia di Machiavelli, dall’altra non si può non restare affascinati dalla sua concezione dell’uomo, dal suo pessimismo antropologico, dalla sua convinzione che la natura umana non muti nel tempo, ma sia sempre la stessa, con le sue debolezze e i suoi vizi. È il motivo per cui Machiavelli ritiene fondamentale la lettura dei classici antichi (“la lezione degli antiqui”) che, unita all’esperienza effettuata sul campo (“l’esperienza delle moderne cose”), permette di stabilire “leggi”, regole della politica che secondo lui “mai o raro fallano” e che in molti casi rimangono valide anche per noi. Del resto, come all’epoca di Machiavelli, anche nel nostro tempo l’azione politica è caratterizzata dal conflitto e come per Machiavelli, l’obiettivo da perseguire è sempre quello di creare un ordine politico, soprattutto se il discorso si sposta dal piano della politica interna a quello della politica estera.
Carlo Rosselli diceva che “Gli italiani sono pigri moralmente, c’è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e a trasformare in commedia le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi delle coscienza – un vero appalto spirituale – è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche nei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deus ex macnina, del duce, del domatore – si chiami esso papa, re, Mussolini – risponde sovente ad una loro necessità psicologica.” Insomma, siamo ancora così?
La storia italiana ci insegna che periodicamente il nostro Paese è attraversato da pericolosi rigurgiti autoritari. Per la pigrizia morale di cui parla Rosselli, certo, ma anche per la propensione a cadere in un eccessivo privatismo. Un rischio, insito nella libertà di cui godono i “moderni”, da cui un grande liberale come Benjamin Constant già nella Francia dei primi decenni dell’Ottocento aveva messo in guardia. Troppo impegnati a badare ai propri interessi particolari, peraltro spesso infimi e meschini, gli Italiani hanno dimostrato di poter rinunciare troppo facilmente al diritto di partecipare al potere politico, senza comprendere che rinunciando alla partecipazione si perde ben presto anche la libertà. Oggi abbiamo i necessari anticorpi per non ripetere gli errori del passato. La libertà di stampa e una rete libera e aperta, ad esempio, oltre ad avvicinare e ad interessare un gran numero di persone ai grandi problemi politici del Paese, assicurano anche un perenne controllo sui governanti. È un elemento da non dare mai per scontato e da difendere in ogni modo perché, se di per sé non risolve certo i grandi problemi della classe politica italiana (la corruzione, il clientelismo, l’incompetenza), consente però di venire a conoscenza di ciò che accade e quindi di “punire” chi sbaglia non eleggendolo più: qualcosa di ben diverso dal credere che tutta la classe politica vada spazzata via. A questo proposito, voglio concludere richiamandomi ancora una volta al messaggio machiavelliano che è un messaggio fortemente antidogmatico. Penso alla splendida lettera a Ricciardo Becchi del 9 marzo 1498 in cui Machiavelli fa un ritratto realistico e disincantato del grande predicatore Savonarola, che “viene secondando e tempi et le sua bugie colorendo” e di cui mette in luce i subdoli piani politici, celati dietro argomentazioni di stampo morale e religioso. Ecco, in questa lettera Machiavelli mette in guardia da coloro che si fanno portatori di verità, da chi si atteggia a messia per dirci cosa sia giusto o sbagliato. È proprio questo, a mio parere, il messaggio che oggi in Italia abbiamo maggiore necessità di recepire.
Giuseppe Sciara (@GiuseppeSciara) – Torino (1981). Ha conseguito la maturità classica presso il liceo “V. Alfieri” di Torino e ha svolto studi musicali presso il Conservatorio “G. Verdi” conseguendo il diploma di compimento medio di pianoforte. Prima di laurearsi in “Studi europei” all’Università di Torino, ha suonato con diverse band metal e rock, partecipando tra l’altro a due tour canadesi. Nel 2012 ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca in Studi politici. Collabora alla didattica per la cattedra di “Storia del Pensiero politico” del Prof. Enzo Baldini. È attualmente titolare di una borsa di studio di dottorato presso l’Università di Genova, in co-tutela con l’Università di Paris VIII. Appassionato di letteratura francese e americana, di musica rock e di enogastronomia, ha un blog: ilriccioelavolpe.wordpress.com.