Italia, bella e impossibile

La dedica di Byron a John Hobhouse del IV canto dell’Aroldo traccia un quadro dell’Italia che colpisce il lettore di oggi. Duecento anni dopo, siamo ancora un paese di lancinante bellezza, ma irrimediabilmente premoderno?

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Il canto IV del Childe Harold’s Pilgrimage di Lord Byron è preceduto da una dedica a John Hobhouse, il politico inglese amante dell’Italia, amico del poeta e suo compagno nel corso del viaggio a cui il poema è ispirato. Il testo contiene una riflessione sul ruolo della tradizione letteraria in una terra che è culla dell’arte e della bellezza, ma non riesce a essere nazione. Si tratta di uno dei principali motivi di ispirazione di tutto il canto IV del poema, che va letto anche nel contesto dello scenario europeo dell’epoca: Napoleone sconfitto, la reazione trionfante in tutto il Vecchio Continente, l’Italia ancora una volta ostaggio dei “vecchi sovrani sui vecchi troni”. La dedica reca in testa una terzina dalla Satira terza di Ludovico Ariosto: “Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, / Quel monte che divide e quel che serra / Italia, e un mare e l’altro, che la bagna”. Di seguito proponiamo il testo della parte finale della dedica. La traduzione è basata sull’edizione a cura di Aldo Ricci (Firenze, Sansoni, 1923), la cui grafia è stata rispettata fedelmente a parte la normalizzazione degli accenti rispetto all’uso contemporaneo.

Come partecipare

Per giocare a #festivalcom14/Byron nella giornata di venerdì 12 settembre 2014 leggi e commenta la traduzione italiana oppure il testo inglese; puoi condividere i tuoi commenti sotto forma di tweet, associandoli a #festivalcom14/Byron. Per partecipare al gioco nelle giornate di sabato 13 e domenica 14, consulta il calendario di lettura.

Traduzione italiana

[…] Nel corso del canto seguente, era mia intenzione, sia nel testo, sia nelle note, di trattare delle condizioni attuali della letteratura italiana, e forse anche dei costumi. Ma, entro i limiti che mi ero preposto, trovai ben presto che il testo era difficilmente bastevole di fronte alla moltitudine degli oggetti esteriori e alle riflessioni che ne derivano: quanto a tutte le note, eccettuate alcune delle più brevi, io sono vostro debitore, ed anche queste doverono necessariamente essere limitate alla spiegazione del testo.

È pure un compito delicato e non troppo grato, quello di dissertare sulla letteratura e sui costumi di una nazione così differente dalla nostra; e richiede una cura e un’imparzialità che ci indurrebbero – per quanto noi non siamo osservatori disattenti, né ignari della lingua e dei costumi di gente tra la quale abbiamo recentemente vissuto – a diffidare del nostro giudizio, od almeno a differirlo, ed a vagliare più scrupolosamente le nostre informazioni. Le condizioni dei partiti letterari, oltreché politici, sembrano essere, o essere state così burrascose, che è pressoché impossibile per uno straniero il pilotarsi imparzialmente tra di esse. Può dunque bastare, almeno pel mio scopo, la seguente citazione dalla loro bella lingua: «Mi pare che in un paese tutto poetico, che vanta la lingua la più nobile ed insieme la più dolce, tutte tutte le vie diverse si possono tentare, e che sinché la patria di Alfieri e di Monti non ha perduto l’antico valore, in tutte esse dovrebbe essere la prima». L’Italia ha ancora dei grandi nomi: – Canova, Monti, Ugo Foscolo, Pindemonte, Visconti, Morelli, Cicognara, Albrizzi, Mezzofanti, Mai, Mustoxidi, Aglietti e Vacca assicureranno all’attuale generazione un posto onorevole nella maggior parte dei campi dell’Arte, delle Scienze e delle Belle Lettere; ed in alcune di essere il posto più alto – l’Europa, il Mondo, anzi, non ha che un solo Canova.

È stato detto in qualche posto dall’Alfieri che «la pianta uomo nasce più robusta in Italia che in qualunque altra terra – e che gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova». Senza sottoscrivere alla seconda parte della sua proposizione – una tesi pericolosa, la cui verità può essere discussa con migliori argomenti, e cioè che gli Italiani non sono in alcun modo più feroci dei loro vicini – deve essere volontariamente cieco o stupidamente mancante di facoltà osservatrice colui che non è colpito dalla straordinaria capacità di questa gente, o, se il temine mi è concesso, dalle loro possibilità, dalla loro prontezza nel capire, dalla loro rapidità nel concepire, dall’ardore del loro genio, dal loro senso del bello, e – nonostante tutti gli svantaggi dovuti alle ripetute rivoluzioni, alla devastazione di battaglie, ed alla secolare disperazione, – da quella loro ancora insoddisfatta «sete di immortalità» – dell’immortalità che è frutto di indipendenza. E quanto noi stessi, cavalcando intorno alle mura di Roma, udimmo il semplice lamento del ritornello dei lavoratori: “Roma! Roma! Roma! Roma non è più come era prima!” ci fu difficile non sentire il contrasto tra questa malinconica trenodia e l’urlo baccanale delle canzoni esultanti, ancora strillate nelle osterie di Londra per la carneficina di Mont Saint Jean e per il tradimento verso Genova, l’Italia, la Francia, il mondo, da parte di uomini la cui condotta Voi stesso avete smascherato in un’opera degna dei tempi migliori della nostra storia. Quanto a me:

«Non moverò mai orda

Ove la turba di sue ciance assorda»

Ciò che l’Italia ha guadagnato dal recente trasferimento di nazioni, sarebbe inutile per gli Inglesi indagare, finché non sia stato accertato che la stessa Inghilterra abbia guadagnato di più che non un esercito permanente e la sospensione dell’Habeas Corpus. Basti per essi di guardare in casa propria. Quanto a ciò che hanno fatto all’estero, e specialmente nel sud, «in verità essi avranno la loro ricompensa», e ciò in un tempo non molto lontano.

Augurandovi, mio caro Hobhouse, un felice e piacevole ritorno in quel paese il cui vero bene non può essere più caro ad altri di quel che non sia a Voi stesso, io Vi dedico questo poema nella sua forma completa; e ripeto ancora una volta quanto sinceramente io sia

vostro obbligato

ed affezionato amico

BYRON.


Testo in inglese

[…] In the course of the following Canto it was my intention, either in the text or in the notes, to have touched upon the present state of Italian literature, and perhaps of manners. But the text, within the limits I proposed, I soon found hardly sufficient for the labyrinth of external objects and the consequent reflections; and for the whole of the notes, excepting a few of the shortest, I am indebted to yourself, and these were necessarily limited to the elucidation of the text.

It is also a delicate, and no very grateful task, to dissert upon the literature and manners of a nation so dissimilar; and requires an attention and impartiality which would induce us, — though perhaps no inattentive observers, nor ignorant of the language or customs of the people amongst whom we have recently abode, — to distrust, or at least defer our judgment, and more narrowly examine our information. The state of literary party runs as high or higher than even on the question of Romantic or Classical as they call it, so that for a stranger to steer impartially between them is next to impossible. It may be enough then, at least for my purpose, to quote from their own beautiful language — Mi pare che in un paese tutto poetico, che vanta la lingua la più nobile ed insieme la più dolce, tutte le vie diverse si possono tentare, e che sinché la patria di Alfieri e di Monti non ha perduto l’antico valore, in tutte essa dovrebbe essere la prima.’ Italy has great names still — Canova, Monti, Ugo Foscolo, Pindemonte, Visconti, Morelli, Cicognara, Albrizzi, Mezzophanti, Mai, Mustoxidi, Aglietti, and Vacca, will secure to the present generation an honourable place in most of the departments of Art, Science, and Belles Lettres; and in some the very highest — Europe — the World — has but one Canova.

It has been somewhere said by Alfieri, that ‘La pianta uomo nasce più robusta in Italia che in qualunque altra terra — e che gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova.’ Without subscribing to the latter part of his proposition, a dangerous doctrine, the truth of which may be disputed on better grounds, namely, that the Italians are in no respect more ferocious than their neighbours, that man must be wilfully blind, or ignorantly heedless, who is not struck with the extraordinary capacity of this people, or, if such a word be admissible, their capabilities, the facility of their acquisitions, the rapidity of their conceptions, the fire of their genius, their sense of beauty, and amidst all the disadvantages of repeated revolutions, the desolation of battles and the despair of ages, their still unquenched ‘longing after immortality’, — the immortality of independence. And when we ourselves, in riding round the walls of Rome, heard the simple lament of the labourers’ chorus, ‘Roma! Roma! Roma! Roma non è più come era prima’, it was difficult not to contrast this melancholy dirge with the bacchanal roar of the songs of exultation still yelled from the London taverns, over the carnage of Mont St Jean, and the betrayal of Genoa, of Italy, of France, and of the world, by men whose conduct you yourself have exposed in a work worthy of the better days of our history. For me,

«Non moverò mai corda

Ove la turba di sue ciance assorda.»

What Italy has gained by the late transfer of nations, it were useless for Englishmen to enquire, till it becomes ascertained that England has acquired something more than a permanent army and a suspended Habeas Corpus: it is enough for them to look at home. For what they have done abroad, and especially in the South, ‘Verily they will have their reward’, and at no very distant period.

Wishing you, my dear Hobhouse, a safe and agreeable return to that country whose real welfare can be dearer to none than to yourself, I dedicate to you this poem in its completed state; and repeat once more how truly I am ever

Your obliged

And affectionate friend,

BYRON.


#festivalcom14/Byron continua domani, sabato 13 settembre 2014, con la lettura e riscrittura del brano Il lamento di Byron (Childe Harold’s Pilgrimage, IV, XLII-XLIII).