Domenica 28 dicembre 2014 con #viafrancigena saranno protagoniste le storie. Storie raccontate e vissute, ascoltate e narrate. Qui i testi per partecipare alla riscrittura online.
Domenica 28 dicembre 2014 a San Gimignano saremo in ascolto. Ascolteremo le storie di tre scrittori (Francesca Matteoni, Azzurra D’Agostino e Alessandro Raveggi) e quelle delle persone che interverranno agli incontri con loro. Sarà l’occasione per conoscere e per incontrare, per mettersi in ascolto e raccontare, per leggere e giocare alla Twitteratura.
La #viafrancigena è una strada, un percorso, un cammino, proprio come una storia che parte dallo scrittore e arriva al lettore o forse esattamente l’opposto.
Per chi volesse partecipare online alla riscrittura, proponiamo qui alcuni dei testi che verranno letti e raccontati nel corso della giornata di domenica 28 dicembre con hashtag #viafrancigena.
Incipit di Tutti gli altri (Tunué)
Pinocchio
Nei giorni di festa io e i cugini dormivamo insieme nel letto della casa in montagna. Elisa da una parte, io dall’altra e Matteo, il più piccolo, nel mezzo. Io raccontavo le storie e restavamo svegli fino all’ora in cui i campi, là fuori, di sotto, si riempivano di spiriti.
Era un sabato della seconda elementare ed Elisa non voleva saperne di prendere sonno.
“Dai, ancora una.”
“Non ne ho più.”
“Inventala! Una che sai tu.”
“No.”
“Poi non te ne chiedo altre.”
“Inventatela da sola.”
“Non mi riesce…”
Tirai un sospiro:
“Va bene. È in un libro. Fa paura…” dissi, e mi voltai per vedere il suo viso nell’oscurità, ma c’erano solo i respiri e l’attesa, mentre Matteo già dormiva. “È la storia di un burattino. Questo burattino,” cominciai, “ vorrebbe diventare una persona in carne e ossa, ma non sta a sentire né il babbo né la Bambina dai Capelli Turchini. Scappa, vende l’abbecedario e per di più è pure un gran bischero: quando si ritrova in tasca cinque monete d’oro, va in cerca di un campo miracoloso dove seppellirle perché ne cresca un albero pieno, come gli hanno suggerito due imbroglioni. Ed è così che alla fine incontra gli assassini. Proprio in quel campo, nel buio pesto che non si riconosce niente, non si sente nessuno, tranne le civette che non smettono mai di gridare.”
“E cosa gli fanno?”
“Lo impiccano.”
“Dove?”
Sbuffai. “A un ramo di quercia.”
“E tutto questo solo perché era stato disubbidiente?”
“Sì, anzi, no. Ti ho mentito. È vero che lo impiccano, ma lui non è cattivo, è il mondo che va sempre al contrario.”
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che ora è notte e si deve stare a occhi chiusi.”
“Ma se lui muore cosa possiamo fare?”
“Niente. Aspettare e dormire. Dormi, ora. Dormiamo tutti.”
‘Canti di un luogo abbandonato’, SassiScritti 2013
(…)
Chi era qui, chi zappava e mungeva
chi insomma c’era non l’avrebbe voluto
il crollo del fienile e neanche, inutile dire,
questo scrostarsi di pareti, la gramigna
tra le fessure del selciato e tutto sommato il mondo
l’intero mondo spopolato. Il mondo quello lì, che c’era
e pensava alla primavera come a una promessa,
la terra del campo spessa come una preghiera.
(…)
Quando se ne sono andati
hanno portato via le loro foglie
le loro sere e primavere le loro voglie
di pioggia la raggia o rovo o spina
impigliata una mattina nel vestito
della festa non basta che il posto sia lo stesso
che l’adesso sia una specie di per sempre
per chi lo vive ma invece il torrente
scorre passa e come in un gorgo
quando se ne sono andati
hanno portato via tutto il borgo
il bosco l’intero mondo il suo gergo
sì il modo di parlare e non solo anche
quello di vivere, di camminare.
(…)
Non staremo buoni ci sarebbe piaciuto anche a noi
morti i buoi gli agnelli i bambini belli che abbiamo
partorito e vestito e poi i figli dei figli le cose utili
e quelle inutili i gigli e il ginepro l’ombra sul retro
il tiglio nell’aia la baia di silenzio che abbiamo custodito
sì anche questo prato tutto tutto svanito più remoto
delle battaglie che abbiamo combattuto e così
siamo rimasti impigliati come impigliati in questo
resto che sembra reclamare qualcosa, qualcuno
la rosa fa l’arco sopra la porta un varco fiorito
credevamo fosse questo l’infinito ma è finito
tutto ci hanno messi là sotto non è tornato nessuno.
ALCUNI CONCETTI UTILI PER ARRIVARE AD UNA VIA FRANCIGENA
Questi testi (non tutti) potranno stimolare il dialogo per farmi percorrere la mia via Francigena, a San Gimignano, davanti a voi che già la percorrete: per trovare assieme un metodo di scrittura e raccolta. Non è necessario leggerli tutti, certo, ma forse almeno uno (il primo, gli altri testi verranno letti nel corso dell’incontro di domenica 28 dicembre 2014). Fanno parte di un percorso di ritorno in Italia che ho condotto a tappe dal 2012 ad oggi. Sono racconti su esuli toscani e poesie sul difficile ritornare in patria, sul dis-esilio (come diceva Benedetti), ovvero il sentirmi estraneo alla mia terra per troppo tempo. Visto che spero di compiere questo processo di riappropriazione nel 2015 (e vi dirò, in parte, come), mi auguro che vogliate aiutarmi a rispondere alle domande che vi farò durante l’incontro, per aiutarmi a capire dove andare, o meglio, arrivare.
1) TRANSUMANARE
(Un racconto ispirato ad un esule toscano)
Il curatore volante[1]
Abitava con gusto quel transito notturno nel gate della periferia londinese, dove le luci s’avvezzavano a una cenere gialla. Dove s’assentava lo spazio umano, si popolavano le meccaniche, i tapis-roulant dei bagagli strisciavano vuoti e sornioni, le tabelle d’orario scalzavano i loro numeri, anime pigre svegliate da un modesto lavorìo. Lui s’era introdotto quasi integralmente nel borsone in pelle, accoccolandosi: controllava a piene mani che ci fossero alcuni “amuleti”, oggetti incagliati tra le mutande, che avevano stropicciato e perquisito beffardi al controllo di sicurezza pisano. La mamma Idette l’aveva recapitato all’aeroporto di Pisa, accompagnato in macchina per la prima volta dopo anni di spostamenti autonomi. Avevano dialogato nel tragitto su aspettative e accorgimenti materni, lanciati come lo scoccare disinvolto di freccia nei due, tre, sorpassi sulla Superstrada. «La nostra è par excellence una famiglia in viaggio», gli si era proposta Idette con uno sbadiglio francofono, stampando un forte abbraccio di commiato sulla corporatura allampanata. «Per quello ho tante mutande?», aveva risposto Lorenzo, suo figlio. Avrebbe passato la Manica alla volta di Liverpool, per l’incarico di curatore della Biennale d’arte. Cosa cercava ora in quella notte assuefatta, in quel transito pianificato?
Un addetto passò in sella a una specie di tricheco meccanico con spazzolone. Incerava il pavimento e fumava una sigaretta, recitando la propria solitudine. Lorenzo stette per un attimo in una quiete rara, come se quello spazzolone fosse giornaliero… la sirena improvvisa dei carabinieri, la nenia dell’arrotino, lo sganasciarsi del camion della nettezza su per un vico, il brusio gaio dell’uscita da una scuola elementare, lui che appoggia una guancia alla finestra ghiacciata dall’inverno senese: casa. Ma il ghermire un nuovo oggetto lo fece ritornare al senso ultimo di quel borsone. E se si fosse fatto caricare là dentro, sul prossimo volo? E se, giunto a Liverpool, non fosse più uscito dal borsone-casa? La sua assistente inglese l’avrebbe portato annaspando in spalla ad ogni conferenza stampa, ai vernissage. Avrebbe fatto il voilà della prestigiatrice, con la mano. Lui sarebbe sbocciato con uno statement geometrico su Alfred Jaar, elaborato dalla concentrazione di quella sacca fredda, galleria di frammenti che si conquistavano e perdevano, con oramai suo sommo piacere.
Quell’individuarsi là dentro, nel borsone, gli fece però subito strano. Si sentì come rimpicciolito, il tronco diminuito, la testa spelata, verso un rachitismo di bimbo: un pupo ingingillito nel suo piccolo mondo borioso di spiegazzati slip. Quel pensiero assorto e amaro parve attirare l’attenzione dell’addetto, che ritornò già inebetito di stanchezza. Scandagliò il bagaglio, incurante del proprietario. Lo piazzò su un predellino del tricheco meccanico, e lo trasportò ad un’uscita di sicurezza solo socchiusa. Quindi, spense le luci del gate, davvero, smorzando il torpore del giallo cinereo.
«Faccia piano con quel maledetto bimbo», gli mormorò Lorenzo. Dalla distanza gli era parso quasi di scorgere i calci e i pugni del pupo a deformare la tela della sacca. S’avviò quindi all’uscita, quasi volesse materialmente sincerarsi, a tentoni, di quel vagente nella sacca. L’uscita di sicurezza, il curatore volante, il segnale squillante Uscita di Sicurezza unica luce accesa, i suoi occhi brillanti nel buio, in un duello a mezzanotte, tentato ora più dalla fuga che dall’apertura della cerniera deformata del borsone. Esplose nel mentre qualcosa là fuori, sul cielo bluastro della campagna presa in una notte dipinta chiarissima come in un olio medievale. E poi un’altra esplosione, un pizzico, molti pizzichi, oltre le recinzioni dell’aeroporto. Erano lucciole, difficili da concepire in quella brughiera. Divennero ognuna una porticina, uno strappo, rammendi delle campagne lasciate alle spalle. Rammendi della mamma Idette, del suo insegnamento di sempre: bisogna saper essere osservatori, piuttosto che profeti. E il bambino, quel demone incastrato nel borsone, poté sgusciare così fuori, disfarsi dei propri caparbi vagiti, a osservare fissamente quelle lucciole toscane nella landa inglese. Per poi ripartire nuovamente all’alba, riprendendo corpo.
«Libertà è stare in transito, è uno stop-over. Alcun fardello della tua terra, alcuna responsabilità della meta finale», mi ha confessato il protagonista di questa storia, accalappiato da tante lucciole. «Però non può durare in eterno, il transito, non può essere una condizione d’eccellenza. Altrimenti un bimbo cocciuto nel borsone tornerà a vagire.»
[1] Tratto dalla serie “Le vite illustri / Talenti da export” uscita nell’edizione toscana de La Repubblica.