A un anno dalla lettura condivisa su Twitter de I promessi sposi, intervistiamo Marco Viscardi, che ne ha appena curata una nuova edizione per Rizzoli con Francesco De Cristofaro.
Marco Viscardi ha partecipato – insieme a Gianfranco Alfano, Nicola De Blasi e Matteo Palumbo – alla nuova edizione de I promessi sposi curata da Francesco De Cristofaro per BUR Rizzoli. A un anno dall’esperienza di #TwSposi, con cui una trentina di scuole in tutta Italia ha letto e commentato il libro su Twitter con il metodo TwLetteratura, gli abbiamo sottoposto alcune domande sull’opera di Manzoni.
Cominciamo con una questione che potrebbe sembrare banale, ma con cui è bene sgombrare subito il campo. Perché una nuova edizione di un libro su cui a prima vista sembrerebbe essersi detto e scritto ormai tutto? In un’Italia che dovrebbe essere cambiata radicalmente rispetto all’Ottocento, perché continuare a leggere e a studiare I promessi sposi?
Intanto permettimi di ringraziarti per l’opportunità di dialogare coi lettori del vostro sito. Negli ultimi anni l’incontro fra la BUR-Rizzoli e l’ADI, associazione che raccoglie gli studiosi di letteratura italiana, ha portato alla pubblicazione di molti classici nuovamente e riccamente commentati; la proposta di lavorare ai Promessi sposi è arrivata a Francesco de Cristofaro in questo contesto e lui, cosa rara nel campo degli studi umanistici, ha deciso di tentare la possibilità di un lavoro d’équipe. Così Francesco ed io ci siamo divisi i capitoli da commentare, Giancarlo Alfano si è occupato dell’apparato di immagini, Matteo Palumbo della Colonna Infame e Nicola De Blasi della questione della lingua. L’offerta è giunta in un momento particolarmente vivace della vita universitaria napoletana. Da qualche anno, grazie soprattutto a Francesco stesso e a Giovanni Maffei, il Dipartimento di Studi Umanistici della «Federico II» è diventato un luogo di dialogo interdisciplinare e intergenerazionale che ha dato vita ad un vero e proprio Opificio di studi letterari che, più che un gruppo di lavoro, è diventato una comunità dialogante: un’Eutopia, nel senso etimologico di luogo felice in cui ragionare e riflettere insieme sulle questioni artistiche, e non solo, del nostro tempo. Vorremmo che i lettori ritrovassero nel nostro lavoro un po’ dell’entusiasmo di questa esperienza che vede coinvolti, a vario titolo, i partecipanti del volume.
Tornando alla tua domanda, vale la pena leggere I promessi sposi perché sono un grande romanzo, con tutte le caratteristiche del genere, e vale la pena leggerlo appunto come un romanzo e non come il monumento che, talvolta, scuola e università ci presentano. Leggerlo come un’opera viva, inquieta, sfuggente e soprattutto un’opera che parla di noi e parla a noi, non dell’altro mondo ma di questo, con le sue ingiustizie e la sua mancanza di morale. «Un disperato ritratto delle cose d’Italia – come ha scritto Leonardo Sciascia – l’Italia delle grida, dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia della mafia e degli azzeccagarbugli.»
In un grande classico ogni lettore tende a vedere qualcosa che gli appartiene. Ad esempio, quando leggemmo Manzoni lo scorso anno con le scuole della comunità di TwLetteratura gli studenti del Sud identificarono l’addio ai monti di Lucia con la fuga che i giovani meridionali compiono per andare a studiare o a lavorare al Nord o all’estero. Fino a che punto ha senso interpretare il testo con questo approccio?
Per fortuna, l’approccio accademico è solo uno degli infiniti tentativi di leggere un’opera. Nessuno più di Italo Calvino ci ha insegnato che un classico ha sempre qualcosa da dire, perché supera i confini del proprio tempo conservando intatta la sua essenza di scandalo, l’incandescenza del suo significato, anzi dei suoi significati. Nel secondo dopoguerra, in vista di un film mai realizzato, Giorgio Bassani trasse un soggetto cinematografico dai Promessi sposi in cui Renzo, sopravvissuto alle catastrofi della Storia, incarna la figura del reduce, dell’uomo tornato dalla battaglia e dall’orrore della guerra, assomigliando in questo alla maggioranza degli italiani degli anni cinquanta. Nella lettura di un intellettuale laico scorgiamo il riflesso di una Italia ancora ingombra di macerie e rovine dove il conflitto mondiale è ricordo insistente e perturbante.
La lettura degli studenti meridionali mi pare calzante e purtroppo triste nella sua intelligenza. Per il vecchio Lukács il Seicento dei Promessi sposi era la rappresentazione artistica dell’eterna crisi italiana. Crisi ancora oggi persistente, e forse nei nostri anni incerti il romanzo ha molto da dire alle nostre esistenze precarie e irrelate. Se accantoniamo le facili interpretazioni provvidenzialiste, la storia milanese del secolo XVII si rivela più una dolorosa traversata della notte che la fiaba del matrimonio e della ricchezza borghese. Parla di noi perché anche noi, come i due protagonisti, viviamo nell’incertezza del nostro tempo, nello spaesamento di strade dalla meta ignota, di cammini complicati e tortuosi.
Riletto in età adulta, il romanzo di Manzoni mostra pieghe e significati che uno studente delle scuole medie – inferiori o superiori – probabilmente non sempre può cogliere: l’ambivalenza di alcuni personaggi, l’inquietudine latente di altri. Non sarà forse che il vero Manzoni dobbiamo ancora scoprirlo e che il suo successo – anche e soprattutto scolastico – gli ha poi sovrapposto anche qualche buona crosta ideologica?
Manzoni andrebbe letto ricordando, con Ludwig Wittgenstein, che nella grande arte c’è sempre un animale selvaggio: addomesticato. Andrebbe letto col desiderio di scorgere dietro lo scrittore apparentemente distaccato – il sovrano costituzionale delle nostre lettere come lo chiamava Nievo – la potenza e l’inquietudine di una intelligenza rapace e precocemente nevrotica. E potrebbe essere affascinante leggerlo alla luce di un’intuizione di Giorgio Manganelli secondo cui Manzoni è l’unico autore della nostra letteratura paragonabile ai grandi narratori russi. Pochi romanzi si sono posti con altrettanto coraggio e altrettanta spregiudicatezza il problema del male, e se nel passaggio dal Fermo e Lucia all’edizione definitiva la rappresentazione del male si è quasi smaterializzata e fatta implicita (pensa ai diversi modi di trattare la storia della Signora di Monza), a una lettura attenta e, come suggerisci acutamente tu, de-idelogizzata non sfuggiranno tutte le latenze e le problematicità – i chiaroscuri – dell’opera. È un romanzo sul male, come dicevo, sulle ingiustizie e sui soprusi del potere, ma anche un romanzo sul caos della Storia, sull’impossibilità di trovare una direzione nel disordine del mondo, ed è persino – ma si tratta di una questione davvero delicata – un romanzo in cui il cristiano sembrerebbe chiedere conto a Dio stesso dei dolori dell’uomo. Come nella grande scena di Cecilia, la bambina morta a causa della peste, su cui ci ha sollecitato a riflettere una studiosa di valore come Clotilde Bertoni durante la presentazione palermitana del nostro volume.
Per meglio capire l’inquietudine manzoniana, pensa allo specchio di stampa che racchiude l’ultima pagina del racconto d’invenzione e la prima dell’appendice storica: da un lato la famiglia felice, scampata al pericolo, imborghesita e riunita attorno a un tavolo, nella tranquillità domestica di una casa, dall’altro il frontespizio della Colonna Infame, con la colonna a ricordare ai milanesi dov’era la casa di quegli uomini in carne ed ossa che, accusati di essere untori, furono torturati, smembrati ed uccisi dai giudici. La casa immaginaria è solida, accogliente e pulita come un interno da pittura olandese, quella realmente esistita è un vuoto, un silenzio: la giustizia degli uomini l’ha distrutta dopo la condanna ingiusta dei suoi abitanti.
C’è ancora molto da dire sui Promessi sposi, su questa meditazione sul male, sull’ingiustizia dilagante, sugli arbitri del potere ma anche – e forse soprattutto – sulla difficile etica della resistenza in un mondo stravolto e inospitale. Mondo che non si redime con le nozze dei protagonisti ma resta angoscioso e terribile. Dietro la storia dei salvati c’è sempre il silenzio angosciante dei sommersi.
Infine, perché ha senso concentrarsi sulla forma del romanzo ottocentesco in un’era in cui il ritorno dei cittadini alla lettura e alla scrittura sembra imponente ma si concentra su forme corte o cortissime e spesso prive di valore o contenuto? In altri termini, il romanzo per come lo conosciamo è destinato a concludersi oppure resisterà al tempo senza mutare la sua pelle?
Il romanzo ottocentesco è spesso stato considerato il modello di romanzo per antonomasia. Un primato che si è rivelato dannoso perché ha dato vita a una vulgata scolastica e accademica in cui si è a lungo contrapposto il presunto ordine del mondo ottocentesco all’inquietudine labirintica del secolo breve. Non di rado il romanzo del XIX secolo è stato etichettato come una forma d’arte convenzionale e a-problematica rispetto alle grandi sperimentazioni moderniste del Novecento. Spesso, per tornare a Wittgenstein, ci si è concentrati sull’apparente domesticità del romanzo borghese senza coglierne il lato ferino, irrisolto. Forse è arrivato il momento di mescolare le carte e far tornare in superficie la complessità dell’Ottocento, ovvero dell’età in cui la grande cultura – ce lo insegna ancora Manganelli – vive tutta all’inferno e le opere di scrittori come Stendhal, Balzac, Dickens e Manzoni sono quasi dei dispacci inviati dall’inferno stesso, delle sonde lanciate in un mondo basculante e convulso. Genere camaleontico e onnivoro, il romanzo ha raccontato – e forse racconta ancora – le vicende di donne e uomini gettati su questa terra senza conoscere nulla del proprio destino e prigionieri di quella che Hegel chiamava la prosa del mondo: la triste, tetra, antieroica banalità del quotidiano.
Uno degli scrittori che amo di più, e che considero fra i più significativi dopo i capovolgimenti del 1989, è un autore tedesco: Winfried G. Sebald che nei suoi testi, e in Austerlitz (2001) particolarmente, ha inaugurato un modo nuovo di organizzare il racconto della Storia in cui testimonianze, invenzione romanzesca, tensione filosofica e immagini (per lo più riproduzioni di fotografie) si intrecciano spaesando il lettore. Una strategia narrativa che Sebald ha messo in atto per il racconto della guerra e della shoah e che di recente ha ispirato il romanzo di un’altra scrittrice germanofona, seppure di origini ucraine, come Katja Petrowskaja che nel suo Forse Esther (2014) è tornata sul nodo della seconda guerra mondiale per poi ripercorrere anche la storia dell’Est Europa al tempo della cortina di ferro. Da lettore credo che questi due autori possano testimoniare una mutazione del genere, e sia chiaro una delle tante mutazioni in atto. Certo puoi farmi notare che questa ibridazione di immagini, dati di realtà e giochi dell’invenzione ricorda una scommessa tentata da Manzoni e da Gonin centosettantacinque anni fa…. Per quanto lontano possano vedere i nostri occhi, cioè molto poco, credo che non sia stata ancora pronunciata la sentenza di morte per il romanzo.
Foto: Renaud Camus, Le Jour Ni l’Heure (Creative Commons).
Marco Viscardi (1978) si è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, dove ha successivamente conseguito il titolo di Dottore di Ricerca. Borsista per due anni presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, suoi contributi sono apparsi su «Status Quæstionis» (di cui è anche redattore) «Poetiche», «Alfabeta2», «Storia in Lombardia», «Il Verri». Tra le pubblicazioni recenti, oltre al commento ai Promessi Sposi (a cura di Francesco de Cristofaro, Giancarlo Alfano, Nicola De Blasi, Matteo Palumbo e M. V., Milano, Bur-Rizzoli, 2014), ha partecipato al volume La satira in versi. Storia di un genere letterario europeo (a cura di G. Alfano, Roma Carocci, 2014).