Viaggio in Italia

Ecco i brani tratti dal Viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe per giocare a #TwGoethe con TwLetteratura durante il Salone del Libro di Torino.

Johann Wolfgang Goethe
 
Da giovedì 14 a lunedì 18 maggio 2015 la comunità di TwLetteratura leggerà e commenterà alcuni brani del Viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe: con l’hashtag #TwGoethe renderemo omaggio alla Germania, ospite d’onore di quest’anno, e al tema ispiratore della XXVIII edizione della kermesse torinese: “Italia, Salone delle Meraviglie.” Scopri le regole del gioco e leggi i testi per partecipare su Twitter nella traduzione di Eugenio Zaniboni (Rizzoli, 1991).
 
Giovedì 14.05.2015 – Venezia (28 settembre 1786) – #TwGoethe/01

Era dunque scritto nel libro del destino, alla pagina mia, che l’anno 1786, la sera del 28 settembre, alle cinque secondo il nostro orologio, avrei visto per la prima volta Venezia entrando dalla Brenta nelle Lagune; e che poco dopo avrei toccato questo stuolo e visitata questa meravigliosa città di isole, questa repubblica di castori. Così, Venezia non è più per me, grazie agli dèi, una semplice parola, un nome vano, come quelli che così spesso han tormentato proprio me, nemico mortale delle parole vuote!

Mentre la prima gondola si accostava al nostro burchiello (ciò che avviene per trasportare più presto a Venezia i passeggeri frettolosi) mi son ricordato d’un mio antico giocattolo, al quale avevo forse pensato da vent’anni in qua. Mio padre possedeva un grazioso modello di gondola, che aveva portato seco dal suo viaggio in Italia; la teneva molto cara ed era convinto di fare anche a me un gran regalo permettendomi di trastullarmi con quella gondoletta. Così i primi rostri della lamiera luccicante e i felze neri delle gondole mi hanno salutato come una vecchia conoscenza, mentre rievocavo quella cara impressione della mia infanzia, che da tanto tempo non me era stata concessa.

Mi trovo alloggiato bene alla Regina d’Inghilterra, non lontano da piazza S. Marco, ciò che rappresenta il più gran vantaggio per un albergo. Le mie finestre dànno sopra uno stretto canale racchiuso fra case alte; sotto i miei occhi un ponte ad una sola arcata e dirimpetto un vicolo angusto ma pieno di movimento. Questa è la mia abitazione e qui resterò per un pezzo, finché, cioè, non avrò finito il pacchetto da spedire in Germania e non mi sono saziato dello spettacolo di questa città. La solitudine che ho sospirato così spesso e con tanta ansia posso finalmente goderla completa; perché l’uomo non si sente mai così solo come tra una folla in cui si aggira perfettamente ignoto a tutti. A Venezia non c’è forse che una sola persona la quale mi conosca; e anche questa non m’incontrerà tanto presto.

[Se sei al Salone del Libro, leggi e commenta questo testo anche dal vivo durante il workshop di giovedì 14 maggio alle 11 con Pierluigi Vaccaneo.]  
 
Venerdì 15.05.2015 – Bologna (18 ottobre 1786) – #TwGoethe/02

Partito da Cento stamane all’alba, sono arrivato qui abbastanza di buon’ora. Uno svelto cicerone di piazza, non privo d’istruzione, come ebbe inteso che non avevo intenzione di fermarmi a lungo, mi fece trottare per tutte le vie e attraverso tanti palazzi e tante chiese, che a stento ho potuto annotare nel mio Wolkmann i luoghi dove ero stato. E chi sa, se più tardi riuscirò a raccapezzarmi fra tanti appunti di tante cose!

[…]  
Sul far della sera, mi sono finalmente appartato da questa antica città veneranda e dotta, da tutta questa folla, che, sotto i suoi portici sparsi per quasi tutte le vie, può andare e venire, al riparo del sole e della pioggia, e baloccarsi, e fare acquisti e attendere ai fatti suoi. Son salito sulla torre a consolarmi all’aria aperta. Veduta splendida! A nord si scorgono i colli di Padova, quindi le Alpi svizzere, tirolesi e friulane, tutta la catena settentrionale, ancora nella nebbia. A occidente, un orizzonte sconfinato, nel quale emergono soltanto le torri di Modena. A oriente, una pianura uniforme fino all’Adriatico, visibile al sorgere del sole. Verso sud, i primi colli dell’Appennino, coltivati e lussureggianti fino alla cima, popolati di chiese, di palazzi e di ville, come i colli del Vicentino. Era un cielo purissimo; non la più piccola nuvola; solo all’orizzonte una specie di nebbione secco. Il custode della torre mi assicura che codesto nebbione da sei anni non si decide a scomparire; ma che col cannocchiale ha potuto più volte distinguere benissimo i colli vicentini con le case e le chiesette, ciò che ora avvien di rado anche nei giorni sereni. Questa nebbia si stende infatti a preferenza verso la catena settentrionale, ciò che rende la nostra cara patria un vero paese dei Cimmerii. Il brav’uomo mi ha fatto inoltre notare la posizione e l’aria salubre della città anche per il fatto che i suoi tetti sembrano nuovi, vale a dire che le tegole non sono per nulla intaccate dal muschio o dall’umidità. E bisogna convenire che i tetti sono veramente belli e puliti; forse anche la bontà delle tegole vi avrà contribuito in parte; è un fatto che nei tempi antichi se ne cuoceva qui una qualità eccellente.

La torre pendente è uno spettacolo che disgusta, eppure è molto probabile che sia stata costruita a bella posta così. Mi spiego in questo modo una simile stravaganza. Nell’epoca dei torbidi cittadini, ogni grande edificio era una fortezza, in cui ogni famiglia potente si costruiva una torre. A poco a poco se ne fece una questione di passatempo e di puntiglio; ognuno voleva primeggiare anche con la sua torre; e quando le torri diritte cominciarono a diventare comuni, vi fu chi se ne costruì una pendente. Architetto e proprietario hanno raggiunto il loro scopo; si passa quasi indifferenti davanti alle molte torri diritte e slanciate, per cercare quella pendente. Sono salito anche su questa. Gli strati dei mattoni sono in posizione orizzontale. Con del buon cemento tenace e con ancore di ferro, si possono compiere anche imprese da pazzi.

[Se sei al Salone del Libro, leggi e commenta questo testo anche dal vivo durante il workshop di venerdì 15 maggio alle 16 con Edoardo Montenegro.]  
 
Sabato 16.05.2015 – Roma (I novembre 1786) – #TwGoethe/03

Finalmente posso rompere il silenzio e mandare di buon animo un saluto agli amici! Possano essi perdonarmi il segreto di questo viaggio, quasi direi, sotterraneo. Io osavo appena dire a me stesso dove ero diretto, e perfino lungo la via temevo ancora di non toccare la meta; soltanto sotto la Porta del Popolo sono stato certo di aver raggiunto Roma.

[…]

Sì, sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo! Se l’avessi visitata quindici anni or sono, in buona compagnia, sotto la scorta di un uomo davvero intelligente, mi stimerei certo fortunato. Ma poiché dovevo visitarla da solo, e vederla coi miei occhi soltanto, è bene che tanta gioia mi sia stata concessa così tardi.

Attraverso le Alpi tirolesi sono passato quasi di volo. Ho visto bene Verona, Vicenza, Padova e Venezia; alla sfuggita Ferrara, Cento e Bologna; Firenze appena appena; l’ansia di arrivare a Roma era sì grande ed aumentava talmente ad ogni istante, che non potevo più star fermo, e a Firenze non mi son trattenuto che tre ore. Eccomi ora a Roma, tranquillo, e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vita. Poter contemplare coi propri occhi tutto un complesso, del quale già si conoscevano interiormente ed esteriormente i particolari, è, direi quasi, come in cominciare una vita nuova. Tutti i sogni della mia giovinezza ora li vedo vivi; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva collocato in un’anticamera le vedute di Roma), ora le vedo nella realtà e tutto ciò che da tempo conoscevo in fatto di quadri e disegni, di rami o di incisioni in legno, di gessi o di sugheri, tutto ora mi sta raccolto innanzi agli occhi, e dovunque io vada, trovo un’antica conoscenza in un mondo forestiero. Tutto è come lo immaginavo, e tutto è nuovo. Altrettanto posso dire delle mie osservazioni e delle mie idee. Non ho avuto nemmeno un pensiero completamente nuovo, non ho trovato nulla di completamente estraneo a me, ma i pensieri antichi mi sono diventati così precisi, così vivi, così concatenati l’un l’altro, che veramente posson passare per nuovi.

Quando l’Elisa di Pigmalione, che l’artefice si era plasmata conforme ai suoi desideri e in cui aveva infuso tutta la verità e tutta la vita che gli era stata possibile, venne finalmente a lui e gli disse: “Eccomi!”, come dovette apparir diversa la creatura viva dal marmo scolpito!

E quanto è anche moralmente salutare per me, il vivere fra un popolo dotato di tanta sensibilità, sul quale si è tanto parlato e tanto scritto, e che ogni straniero giudica secondo il criterio ch’egli porta con sé! Io perdono tutti quelli che criticano o condannano questo popolo, esso è troppo lontano da noi; e al forestiero costa troppa fatica e troppa spesa, l’aver contatto con lui.
 
Domenica 17.05.2015 – Napoli (25 febbraio 1787) – #TwGoethe/04

Finalmente eccomi arrivato anche qui, e sotto buoni auspici. Di questa giornata di viaggio basti dire che abbiam lasciato S. Agata al levar del sole, con un vento che soffiava con violenza alle nostre spalle: vento di tramontana, che non cessò per tutta la giornata, ma che a mezzogiorno spazzò la nuvolaglia. Il freddo ci ha fatto soffrire.

Percorremmo una via sempre attraverso colline vulcaniche, nelle quali tuttavia mi è parso notare ancora la presenza di qualche roccia calcarea; finalmente raggiungemmo la pianura di Capua, e poco dopo Capua stessa, dove facemmo la nostra sosta meridiana. Nel pomeriggio ci si aprì innanzi una bella campagna tutta in piano, mentre la via maestra tagliava in due i solchi delle messi verdeggianti. Il grano si stende come un tappeto alto non meno di una spanna. I pioppi sono piantati in fila nei campi, e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti. Questo spettacolo continua fino a Napoli. Il terreno è meravigliosamente pulito, friabile ed egregiamente lavorato. Le viti sono d’un vigore e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra pioppo e pioppo.

Il Vesuvio si manteneva sempre alla nostra destra, fumigando con violenza; ed io mi compiacevo con me stesso di poter finalmente contemplare coi miei occhi anche questo meraviglioso spettacolo. Il cielo si rasserenò sempre più, tanto che alla fine il sole batteva fin troppo caldo su quella nostra cameretta a quattro ruote. Avvicinandoci a Napoli, l’atmosfera si era fatta completamente sgombra di nubi e noi ci trovammo veramente in un altro mondo. Le abitazioni coi tetti a terrazza facevan comprendere che eravamo in un clima diverso; ma non credo che nell’interno esse siano molto ospitali. Tutti sono sulla strada, tutti seggono al sole finché finisce di brillare. Il napoletano crede veramente d’essere in possesso del paradiso, e dei paesi settentrionali ha un concetto molto triste: “Sempre neve, case di legno, grande ignoranza, ma danari assai.” Questa è l’idea che essi hanno delle cose nostre. A edificazione di tutte le popolazioni tedesche, questa caratteristica, tradotta, significa: “Immer Schnee, hölzerne Häuser, grosse Unwissenheit, aber Geld genug”.

Napoli per sé si annunzia giocondamente, piena di movimento e di vita; una folla innumerevole s’incrocia per le vie; il re è e a caccia, la regina incinta, e non si potrebbe desiderare nulla di meglio.

[Se sei al Salone del Libro, leggi e commenta questo testo anche dal vivo durante il workshop di domenica 17 maggio alle 12 con Paolo Costa.]  
 
Lunedì 18.05.2015 – Palermo (2 aprile 1787) – #TwGoethe/05

Siamo finalmente entrati in porto, a gran fatica e con molti sforzi, oggi alle tre del pomeriggio, e un lieto spettacolo si è subito presentato ai nostri occhi. Del tutto ristabilito come ero, ne ho potuto godere pienamente. La città, con le spalle a nord, è situata ai piedi di alti monti. Sopra la città, per l’ora in cui eravamo, il sole gettava tutti i suoi raggi, in modo che le ombre tenui delle facciate delle case ci stavano di fronte, rischiarate dal riflesso. A destra il monte Pellegrino, con le sue forme graziose in piena luce, a sinistra la spiaggia adagiata via via coi suoi seni, le sue sporgenze, i suoi promontori. Ma quel che produceva l’effetto più suggestivo, era il verde tenero degli alberi, le cui cime, illuminate da dietro, ondeggiavano davanti alle case nell’ombra, come grandi sciami di lucciole vegetali. Un vapor chiaro dava una mano di azzurro a tutte le ombre.

Invece di scendere impazienti sulla rada, ce ne siamo rimasti sopra coperta finché non ci hanno mandati via. Dove avremmo potuto ritrovare un punto di vista come quello, e godere un colpo d’occhio così felice!

Entrammo in città per una porta piuttosto singolare, (composta cioè di due enormi pilastri, ma senza architrave, affinché il carro di S. Rosalia, alto come una torre, vi possa passare in occasione della festa famosa); e subito, prendendo a destra, ci condussero in un vasto albergo. L’albergatore, un arzillo vecchietto assuefatto da tempo a vedere facce straniere d’ogni nazione, ci accompagnò in una camera spaziosa, dal cui balcone si aveva la vista del mare e della rada, del monte di Santa Rosalia e della spiaggia; avendo scorto di lì il nostro battello, potemmo farci un’idea anche del nostro primo punto di osservazione. Pienamente soddisfatti della posizione della nostra stanza, avevamo appena prestato attenzione a un’alcova nascosta sopra un rialzo dietro le cortine, dove si stendeva un letto di proporzioni così imponenti, sormontato da un maestoso baldacchino di seta, che s’intonava perfettamente col resto della vistosa mobilia antica. Un appartamento così sfarzoso ci pose in un certo imbarazzo e, secondo la nostra abitudine, chiedemmo di accordarci sul prezzo. “Non è necessario far patti”, obiettò il vecchietto; “mi auguro soltanto che lor signori si trovino bene a casa mia; si servano pure, se credono, anche dell’antisala, che dà proprio nella loro stanza, e che con tanti balconi è aerata, fresca e piacevole”.

Rimanemmo così a goderci la vista incomparabile e variata, studiandoci di riprodurla minuziosamente col lapis e col pennello, come quella che da tal punto offriva all’artista una messe inesauribile.

Il chiaro di luna ci attirò verso sera nuovamente sulla rada e al ritorno ci trattenne ancora a lungo sulla balconata. Era una splendida illuminazione, una calma e un fascino grandi.
 

Ah, se anche noi innanzi ai nostri conterranei potessimo presentarci in questo modo per intrattenerli piacevolmente con la nostra azione diretta! Invece non facciamo che mettere il nero sul bianco in tutto ciò che abbiamo di meglio; colui che legge poi si rincantuccia col suo libro, e se lo divora per suo conto, come meglio può.

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