Leggere l’antico su Twitter

È possibile leggere l’antico e il patrimonio culturale su Twitter? Il nostro intervento al convegno del Cridact di Pavia “Futuro del passato”, sulla didattica museale e archeologica.

Testa di scultura classica con corona di hashtag

In modo del tutto intuitivo, TwLetteratura ha immaginato che l’antico e un contenuto culturale in senso lato (un affresco, l’architettura di una cattedrale, un’opera lirica, un reperto archeologico, il paesaggio storico, la città) si possano ‘leggere’ quasi come si legge un testo.

Sulle spalle della filologia

Prima di approfondire la questione, ossia di provare a spiegare più in dettaglio che cosa intendiamo con l’espressione ‘leggere come un testo’, segnaliamo che la nostra intuizione sembra trovare in qualche modo corrispondenza nella riflessione che lo storico James Turner sviluppa nel suo bel libro Philology: the forgotten origins of the modern humanities (Princeton University Press, Princeton-Oxford, 2014). Quello di Turner è il tentativo di ripercorrere, con vasta erudizione, le tappe degli studia humanitatis in Occidente, dall’antichità greca fino al ventesimo secolo, concentrandosi da un certo momento in poi sulle vicende degli studi umanistici nella cultura anglosassone (Gran Bretagna, Irlanda e Nord America). L’ipotesi su cui si fonda l’ambiziosa ricostruzione di Turner sembra sviluppare in termini filogenetici quello che per noi è stato un processo ontogenetico; l’idea, cioè, che le numerose discipline umanistiche contemporanee, oggi segmentate e iperspecializzate, derivino tutte da una «one big, old thing»: la filologia, intesa come lo studio dei testi, delle lingue e del fenomeno linguistico in quanto tale.

Fino al diciannovesimo secolo la filologia ha fornito il più influente paradigma di conoscenza e apprendimento; un paradigma fondato sull’analisi storica, il metodo comparativo e l’indagine genealogica. Questo approccio non è specifico della filologia intesa come critica testuale – dove si manifesta attraverso la collazione dei testimoni e la ricostruzione dello stemma codicum – ma si rintraccia nel DNA di tutte le moderne discipline umanistiche e financo delle scienze sociali, dall’antropologia alla storia delle religioni, dalle scienze politiche agli studi letterari, passando per la retorica, il diritto e l’archeologia.

Turner identifica nella vicenda intellettuale di Charles Eliot Norton, definito come padre fondatore dell’umanesimo moderno americano, e noto fra l’altro come traduttore di Dante, un caso esemplare. Scrive Turner: «Norton trattava i templi greci, le cattedrali medievali e i quadri del Rinascimento alla stregua di ‘testi’. Collocava queste manifestazioni materiali del passato nel loro contesto storico, confrontandole con altri ‘testi’ del loro tempo (in senso letterale e metaforico), per restituirne il senso originario».

Alla filologia di Charles Norton è dedicato per intero il saggio di Turner The Liberal Education of Charles Eliot Norton (John Hopkins University Press, Baltimore, 1999).

In definitiva – suggerisce Turner – poiché la filologia sopravvive nel modo in cui anche oggi costruiamo la conoscenza, lo scavo (‘excavation’, espressione che piacerà molto agli archeologi) del passato filologico ci serve al tempo stesso come metodo di ricostruzione storica e come opportunità di comprensione del presente.

Che cosa vuol dire ‘leggere’

Leggere dunque i manufatti culturali, in ispecie quelli del passato, come altrettanti testi. Ma che cosa significa, per noi di TwLetteratura, leggere un testo? Vuole forse dire applicazione rigorosa del metodo filologico per l’analisi testuale attraverso Twitter? La risposta è certamente negativa. Stiamo esplorando le possibilità di una piattaforma tecnologica – diciamo un dispositivo, nel senso foucaultiano del termine – a supporto della lettura. Per noi la lettura è «un dialogo vivo» con il testo (George Steiner, La passione per l’assoluto. Conversazioni con Laure Adler, Milano, Garzanti, 2015, p. 90).

Siamo per la lettura profonda, intesa come «un processo sofisticato di comprensione, che si fonda sull’inferenza, il ragionamento deduttivo, le capacità analogiche del lettore, l’analisi critica, la riflessione e l’intuito» (Maryanne Wolf, Mirit Barzillai, The Importance of Deep Reading, “Educational Leadership”, 2009, 32-37, p. 33). Questo processo, suggerisce Naomi Baron, è sempre meno praticato non solo nell’esperienza privata ma anche nel mondo della ricerca. Viceversa, la lettura intesa come scrematura e scansione è sempre più diffusa: «In misura crescente ‘leggere’ è diventato sinonimo di ‘trovare un’informazione’ – spesso accontentandosi del primo risultato che ci capita fra le mani, anziché riflettere sul suo significato» (Naomi Baron, Words Onscreen. The Fate of Reading in a Digital World, Oxford, New York, Oxford University Press, 2015).

Insomma, la lettura è il contrario di ciò che produce la cultura dei commenti del Web 2.0. Così la descrive Geert Lovink «Nella nostra era dell’autorappresentazione, spesso i commenti non hanno un legame diretto con il testo e l’opera d’arte in questione. L’atto di rispondere non cerca il dialogo con l’autore […] Con un misto di espressioni gergali, slogan tipo inserzioni pubblicitarie e giudizi incompiuti, gli utenti mettono insieme frasi e battute ascoltate o lette in giro. Chiacchiericcio non è il termine giusto. Quel che prende forma è il disperato tentativo di essere ascoltati, di avere un impatto e di lasciare un segno» (Geert Lovink, Ossessioni collettive. Critica dei social media, Milano, Università Bocconi Editore, 2012).

Nuovi paradigmi di lettura?

Volevamo la Rete, ci hanno dato il Web 2.0. Ci hanno dato, cioè, una profezia ideologica che si avvera con le sembianze del migliore dei mondi possibili. Sappiamo che gli spazi sociali del Web 2.0 sono disegnati per ospitare rapporti ineguali. Schiere infinite di solerti ‘prosumer’ nutrono a titolo gratuito gli appetiti commerciali degli unicorni della Silicon Valley. Sappiamo che il Web 2.0 ha finora generato comportamenti disfunzionali nell’accesso ai contenuti culturali: ipersemplificazione, eccesso di soggettività al limite del narcisismo patologico, perdita delle chiavi di lettura, indebolimento della capacità critica. I risultati della ricerca OCSE di recente pubblicazione Students, Computers and Learning: Making the Connection sono chiari: l’uso del computer a scuola non contribuisce in misura rilevante a migliorare l’apprendimento e, semmai, lo peggiora nei casi di impiego particolarmente intenso.

Dunque perché insistere? E perché, in particolare, Twitter? Per diverse ragioni, che provo qui a elencare:

  1. La nostra critica dei media digitali – smettiamo di chiamarli nuovi, per favore – non è fuga dai media digitali. Siamo mediattivisti, nella misura in cui ci impegniamo a decostruire i media e a usarli contestando i rapporti sociali che tentano di imporre. Siamo mediattivisti e postmediali, nel senso che diamo i cosiddetti nuovi media per scontati e ci sentiamo immersi in una cultura fortemente condizionata – negli atteggiamenti, nelle motivazioni e nelle aspettative – dalle tecnologie digitali.
  2. Non vogliamo usare i media digitali in alternativa a quelli tradizionali – il libro, per esempio – ma per arricchire l’esperienza cognitiva che i media tradizionali sorreggono. Quello che svolgiamo su Twitter è un lavoro di metascrittura: produciamo un apparato di commenti, parafrasi, riscritture, variazioni e rimandi, a partire da un testo.
  3. Lavoriamo sulle due vere promesse dei media digitali: interattività e performatività. Interattività significa provare ad attivare dinamiche collaborative in grado di rendere effettiva l’idea di una comunità di lettori. Performatività significa considerare il patrimonio culturale come una piattaforma di apprendimento e innovazione sociale. Il patrimonio culturale è socialmente vivo, messo in scena dalla comunità. Non c’è tutela del patrimonio culturale senza «fioritura dei cittadini» (Edmind Phelps, Mass Flourishing: How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Priceton, Priceton University Press, 2013). È un messaggio per tutti, perché le tecnologie digitali contribuiscono a rendere vaga la distinzione fra ‘produttori’ e ‘consumatori’ di cultura.
  4. Abbiamo scelto Twitter perché ci impone di operare con un ‘terribile’ vincolo: la misura di 140 caratteri entro i quali ciascuna riscrittura deve essere contenuta. Vincolo o, per dire meglio, restrizione: è l’ostacolo che genera la soluzione creativa. Twitter ci fa lavorare à contrainte, come nella letteratura potenziale dell’Oulipo. Usiamo la brevità di Twitter non come scorciatoia, con l’obiettivo di eludere la complessità del testo, ma come luogo in cui la complessità precipita e si condensa. Ovviamente, se Twitter dovesse rinunciare al vincolo dei 140 caratteri per ragioni commerciali, perderebbe qualsiasi motivo di interesse ai nostri occhi.