Le didascalie e i tweet sono parenti stretti. In questa breve intervista, ABCittà ci racconta come e perché si insegna agli operatori del settore museale l’arte della didascalia.
Maria Chiara Ciaccheri e Anna Chiara Cimoli lavorano per ABCittà Officina del Futuro (abcitta.org) e insieme si occupano di accessibilità e mediazione museale. A breve partirà un loro corso progettato in collaborazione con la libreria Spazio bk dedicato alle didascalie museali. Abbiamo chiesto loro di raccontarci di cosa si tratta.
“Didascalico” è un aggettivo che spesso viene usato con una connotazione negativa, anche dagli operatori culturali. Torniamo allora al significato delle parole. “Senza titolo” è un corso dedicato alle didascalie museali. Perché avete immaginato un’iniziativa di formazione in questo ambito?
“Senza titolo” nasce innanzitutto dall’esperienza personale di visita; dalla necessità di instaurare con i musei, prima ancora che con le singole opere, un dialogo aperto, neutrale, paritario. Un confronto che non dia per scontato nulla rispetto ai saperi pregressi, alle esperienze. Che guidi lo sguardo e sappia essere scardinante, attivatore di nuove riflessioni. Un approccio difficilmente riscontrabile nel contesto italiano.
Da un punto di vista professionale, parimenti, il tema della didascalia è centrale per tutti i discorsi legati ai temi dell’educazione e dell’accessibilità.
La didascalia potrebbe essere il primo strumento per la mediazione laddove non esistono altri supporti, anche basati sulla relazione. Ed è una chiave imprescindibile per quel discorso molto più ampio che ha che fare con i temi dell’interpretazione. Di per sé, già nella scelta delle opere, il museo non potrà mai essere un luogo neutrale, ma la voce del museo è una voce che tutti riteniamo credibile e allora, sulla base di questa fiducia, occorre stimolare discorsi orientati a una maggiore trasparenza. Perché certamente esistono pure esperienze in cui la didascalia è inesistente: ma le ragioni debbono essere evidenti e comunque, per quanto possibile, esplicitate.
Quello delle didascalie è un settore intorno al quale esiste una nutrita ricerca ed è un peccato che gli sviluppi più alti della disciplina non siano presi in considerazione, anche all’interno di certe ottime mostre: abbiamo voluto contribuire alla sua diffusione credendo fortemente nel potenziale di questo strumento.
Le tecnologie digitali tendono, almeno in apparenza, a disintermediare il rapporto fra i contenuti culturali e i loro fruitori. La didascalia, a suo modo, è un intermediario? E come affronta questo cambiamento? Cosa credete che oggi sia più importante per dare un senso alle didascalie museali?
La didascalia è certamente un intermediario e non deve trasformarsi in soggetto dell’osservazione. Serve dunque calibrarne gli scopi, rispetto al contesto e ai visitatori ma a partire dalla consapevolezza di alcune buone prassi per l’inclusività. Una buona didascalia è quella che consente, attraverso le sollecitazioni adeguate, di soffermarsi su di un’opera in modo critico, analitico, orientandone gli sguardi in modo aperto. Tenendo però sempre conto che la stessa didascalia potrà essere letta da persone che al museo entrano la prima volta, così come da visitatori esperti e che comunque dovrà accordarsi con le finalità del percorso che sta alla base della sua definizione.
Ci sono molti modelli di riferimento: e molti, probabilmente, devono ancora essere creati. La cosa più importante è forse la consapevolezza rispetto al loro uso: la priorità accordata ai temi dell’accessibilità e la capacità di articolarle dal punto di vista del contenuto secondo prospettive che sappiano, contemporaneamente, parlare a più pubblici. Da un certo punto di vista si tratta forse anche solo di liberarsi di una certa autoreferenzialità.
I mestieri della cultura cambiano, non solo perché a cambiare sono i fruitori della cultura e gli strumenti con cui interagiscono con i contenuti culturali, ma anche perché il lavoro culturale è sempre più permeato dal digitale e, in prospettiva, dall’intelligenza artificiale. Oggi cosa fa la differenza?
La differenze sta forse nella consapevolezza dei nostri pubblici e nel non arrendersi a equazioni facili come quella che spesso vede automaticamente associare le strategie del digitale al mondo dei giovani: che, al contrario, sono spesso allergici all’eccessivo uso della tecnologia nei musei, e apprezzano strumenti “low fi” quale il disegno, come abbiamo sperimentato nei laboratori che conduciamo da anni al Museo del Novecento di Milano. Crediamo sia indispensabile la disponibilità a cambiare approccio, fino a intercettare quello più efficace.
La cultura ha un potenziale molto più ampio di quello che siamo soliti assegnarle. Ha a che fare con i valori, innanzitutto, e con le competenze. Ma è anche vero che non possiamo pensare possa essere l’unica risorsa per tutti, modulabile esclusivamente rispetto a modelli già assegnati. E quindi si tratta forse di relativizzare le gerarchie delle scelte, il giusto e lo sbagliato e capire che la complessità (e la bellezza) di questo settore sta nel fatto che non esistono soluzioni facili. Ce ne siamo convinte organizzando, nel 2015, il corso “Fare partecipazione al museo”, che declinava il concetto di partecipazione nel modo più largo e critico possibile, fuori dalle retoriche e dalle infatuazioni ma anche, speriamo, da sciocche resistenze al digitale.
Ci siamo conosciuti nell’ambito del progetto Tandem, che mette insieme 30 enti culturali e startup europee che provano a scalare i propri progetti su scala internazionale. Cosa può fare l’innovazione culturale per un continente che alza muri contro i rifugiati e fatica a combattere la xenofobia?
Crediamo che possa fare molto, e che la vocazione debba essere, chiarissima, quella di avere principalmente il ruolo di altoparlante (lo diceva un grande curatore, Duncan Cameron, parlando del museo come “altroparlante della società”). Negli ultimi dieci anni stiamo assistendo anche in Europa, sulla scorta della riflessione nordamericana, a una grande apertura in termini di progettualità finalizzate all’inclusione e alla coesione e di consapevolezza della propria responsabilità sociale. Ma non devono essere solo parole. Abbiamo atteso a lungo delle risposte nette, delle prese di posizione da parte dei musei rispetto alle chiusure dei confini e alla levata di scudi di tanti paesi. Sono state allestite importanti mostre (per esempio “Fremd” al Grassi Museum di Lipsia e “Fear of the Unknown” alla Kunsthalle di Bratislava), ma i musei nel loro complesso sembrano molto reticenti a schierarsi. In effetti la risposta più efficace del mondo dell’innovazione culturale, per ora, sembra essere quella della messa a punto di risorse digitali open source: si pensi a tutto il tema dell’orientamento, del ricongiungimento, dell’aggiornamento rispetto all’apertura o chiusura di varchi, sviluppato nelle numerose refugee hackathons che si sono diffuse in Europa.
Più in generale, noi operatori culturali abbiamo sempre più occasioni di viaggiare, anche grazie a progetti come Tandem, e di unire e moltiplicare le nostre progettualità. Soprattutto rispetto a certi temi sembra proprio necessario lavorare in una rete europea, ed è un orizzonte di eccezionale vitalità. Dopo la generazione-Erasmus, la generazione-Tandem?
Maria Chiara Ciaccheri – È consulente, formatrice e facilitatrice per diversi musei, istituzioni e associazioni con particolare interesse rivolto al coinvolgimento di pubblici adulti e con disabilità. Ricercatrice e progettista indipendente, si occupa di accessibilità cognitiva, progettazione partecipata e di strategie per facilitare l’apprendimento al museo. Da anni collabora attivamente con ABCittà Officina del Futuro. Nel 2013 ha completato il Master in Learning and Visitor Studies in Museums and Galleries presso l’Università di Leicester (UK) e, l’anno successivo, ha vinto un bando per un visiting program negli Stati Uniti mappando quasi un centinaio di best practice per l’accessibilità dei musei.
Anna Chiara Cimoli – È una storica dell’arte specializzata in Museologia all’Ecole du Louvre di Parigi. Dopo un dottorato al Politecnico di Torino e una decina di anni di lavoro nell’ambito della ricerca storico artistica, ha lavorato presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro e successivamente per la casa editrice FMR-Art’è. Dal 2001 collabora con ABCittà Officina del futuro, di cui è socia. Si occupa di musei e diversità culturale, progettando e conducendo laboratori per varie istituzioni, fra cui il Museo del Novecento e il MUDEC di Milano. Dal 2012 al 2015, nell’ambito del progetto MeLa*-European Museums in an age of migrations, ha studiato i musei delle migrazioni e le retoriche dell’inclusione sociale. E’ appassionata di educazione, con un’attenzione particolare alla peer education e al contrasto del pregiudizio.