(Dopo) Il fischio finale

Ne Il fischio finale, Davide Rubini racconta il calcio di rigore che l’Italia tirò nel biennio ’94-’95, fuori dalla porta.

Il fischio finale - TwLetteratura

Italia, 1994-1995. Con Il fischio finale (Gilgamesh, 2015), Davide Rubini ricostruisce il contesto storico di un biennio che cambiò la storia della Repubblica. Lo fa attraverso la storia di Brando Adelmi e Ugo Carminati, due personaggi rappresentativi dell’intero immaginario televisivo di un’epoca.

Il fischio finale è ambientato fra il 1994 e il 1995, due anni decisivi per la storia della Repubblica. Fra i personaggi spiccano un politico che rialza la testa dopo Tangentopoli e un calciatore a fine carriera che sposa la figlia di un farmacista. Seppure si tratti del Nord e non della Sicilia, l’ambientazione in una non precisata città di provincia a tratti ricorda i racconti lunghi di Leonardo Sciascia. Perché hai deciso questo contesto per scrivere il tuo romanzo?

Tangentopoli è un affaire del Nord e quindi una storia che ne racconta gli strascichi e le conseguenze non poteva che svolgersi in una cittadina che potrebbe essere qualcosa tra Varese, Novara e Saronno, ma il Nord è pieno di Sud e quindi è inevitabile, con buona pace di chi tenta di distinguere, che la storia abbia colori che arrivino da altre parti d’Italia. Del resto da dove venivano alcuni dei componenti del pool di Milano? Di Pietro, Boccassini, Borrelli, D’Ambrosio erano tutti nati nell’Oltre Po.
 
In ogni caso, Il fischio finale è un romanzo sull’Italia e sugli italiani, tutti, ed è per questo che ho scelto di non dire mai il nome della città della squadra del protagonista; è per questo che il Rivaermosa è una squadra inventata, anche se in effetti se uno si va a guardare chi erano i protagonisti dei campionati C1, C2 e poi Lega Pro di quegli anni un’idea se la fa benissimo.
 
Mai come con Il fischio finale ho sentito che una storia non potesse che svolgersi dove in effetti si svolge. Al Presidente Saronno viene attribuita l’invenzione del frontalino estraibile dell’autoradio. Cerca un po’ di dove era l’imprenditore che lo mise in commercio. Malpensa 2000 riparte alla fine del 1994 grazie allo sblocco dei finanziamenti europei. Le rotonde dei primi anni Novanta si facevano al Nord ed erano davvero il piatto sempre caldo dei bilanci delle amministrazioni comunali di quei giorni.

Una citazione dal quarto capitolo: “Chi […] poteva davvero chiamarsi fuori da quello che era successo nei gloriosi anni Ottanta? E soprattutto, chi avrebbe davvero dovuto sentirsi colpevole? O innocente? Per far muovere le cose uno doveva sciogliere gli ingranaggi, ungerli il tanto che bastava, così che uscissero un paio di cose buone insieme alla marea di cose brutte.” A distanza di vent’anni non molto pare cambiato. Nel frattempo, tuttavia, che cosa ne è stato dell’Italia?

Sul sito ilfischiofinale.org sto raccogliendo articoli dei nostri giorni che parlano di fatti che assomigliano tantissimo alle vicende raccontate nel romanzo. Con tellhistory.com sto raccogliendo quel che gli italiani ricordano degli anni che seguono Tangentopoli. Da questi due esercizi nasce un’impressione forte e coerente: Tangentopoli fu un’occasione persa. E non perché dopo le sentenze arrivarono la Lega Nord o Forza Italia, ma perché la voglia di rinnovamento degli italiani non trovò un progetto che funzionasse da catalizzatore di quelle energie. Si scelse di credere che comunque alla fine le cose non cambiano mai e nessuno rinunciò veramente alla logica dei favori e al vizio del conflitto di interesse.
 
Il relativismo morale di cui parla l’avvocato Riccardo La Cognata nel racconto che ha voluto condividere con TellHistory è la risposta alla tua domanda. A questo purtroppo gli italiani non hanno ancora rinunciato. Non lo hanno fatto la maggioranza dei cittadini e non lo hanno fatto i nostri leader politici.
 
Chi mi conosce per l’impegno speso con progetto-rena.it sa quanto mi sta a cuore la questione morale e quanto da anni io ripeta, fino a diventare noioso, che il vero cambiamento che serve al nostro paese è una rivoluzione etica fondata sull’apertura, sulla responsabilità, sulla trasparenza, sull’equilibrio. Siamo ancora lontani da questa rivoluzione necessaria.

Sotto traccia, nel tuo libro, c’è anche il respiro di una sottocultura di cui il grande pubblico dei telespettatori è forse poco consapevole, e che tuttavia è fortemente presente nel retroterra politico della generazione che ha sostituito il vecchio potere della Prima Repubblica: quella delle convention aziendali, del telemarketing politico, delle formule brevi e non argomentate. Di che cosa si tratta, secondo te? E’ solo un vizio provinciale o è il segno definitivo del declino?

È vero, le convention aziendali sono il brodo primordiale in cui si sono formate le strutture e le abitudini dei partiti nel corso degli anni Novanta, ma non è raro che il mondo aziendale anticipi quello della politica nei suoi modi di fare, negli atteggiamenti, nel dimostrare quello che ‘funziona’ comunicativamente parlando. Non chiamerei quindi provinciale il prestito fatto dalla cultura aziendalistica a quella politica in sé, al massimo era ed è la stessa cultura aziendalistica italiana ad essere provinciale.

Certo è che l’arrivo di Forza Italia ha segnato un deciso cambio di passo in questo senso. Ad un certo punto nel romanzo il segretario provinciale del nuovo grande Partito della Nazione prepara la borsa dei materiali di formazione da consegnare al candidato neofita. Nel farlo ne descrive i contenuti.

Prima di lanciarmi nella stesura del romanzo io avevo vaghi ricordi dei manifesti dei bebé che dicono “Fozza, Itaia”. Nel fare ricerca ho poi scoperto anche questa storia dei materiali di formazione. Io ho venduto enciclopedie per la Treccani. Ecco, i dossier che mi dovevo studiare da venditore erano strutturalmente identici a quelli che Berlusconi dava ai suoi candidati e a cui faccio riferimento ne Il fischio finale.

Oggi siamo piuttosto assuefatti a questo modo di operare dei politici e qualcuno arriva addirittura a decantare la chiarezza delle slides di qualche leader. Detto ciò, questi sono i sintomi, non la malattia.

Tutte le strade conducono a Roma, avrebbe detto Leo Valiani; a quanto pare, però, dopo Paolo Volponi La strada per Roma l’abbiamo persa. È possibile che in Italia, senza che ce ne accorgessimo, alla dialettica tra democrazia liberale e socialdemocrazia si sia sostituito semplicemente un dialogo tra sordi: da un lato la televisione, dall’altra il calcio. Il tuo libro parla del pallone e della politica. Ci stai forse dicendo che per riscoprire le ragioni della democrazia dovremmo spegnere la televisione e tornare fra le porte senza rete di un campo di provincia?

La scelta di accostare calcio dilettantistico o quasi professionistico alla politica locale è stata dettata dal fatto che avevo voglia di scrivere un romanzo che fosse il più vicino possibile alla gente. L’obiettivo era semplificare al massimo e usare dei topoi facilmente riconoscibili in cui il lettore si potesse identificare. Un certo cinema italiano fa bene questa cosa qui senza scadere nella banalità e volevo provarci anche io. Il motivo era il bisogno di accompagnare il lettore verso il sentimento che prova Brando Adelmi alla fine della storia nella speranza di scatenare una precisa reazione e al tempo stesso mostrare l’inevitabilità di quel sentimento.
 
Rispetto alla tua domanda direi che ricordo con nostalgia le partite nei campetti di periferia e le scuole calcio in ogni piccolo paese, così come ricordo con nostalgia le comunità raccolte intorno alla parrocchia fatte di gente che nonostante tutto sceglieva di aderire ad una comunità di riferimento reale e vicina e sentiva di dover fare qualcosa per migliorarla. Questa nostalgia potrebbe essere legata al fatto che abbia lasciato l’Italia ormai quasi vent’anni fa e quindi parli come un esule romantico e piccato. Vero è che quando torno a casa le strade del mio paese mi sembrano sempre più vuote di quelle che sono nei miei ricordi, nonostante la popolazione di Borgaro sia raddoppiata.
 
Quindi sì, forse c’è bisogno di spegnere televisioni, computer e telefoni o almeno trattarli per quello che sono, strumenti e non cuccioli da compagnia. Qualche tempo fa qualcuno si inventò i girotondi… diciamo che li preferisco alle leopolde.


Davide Rubini - Il fischio finaleDavide Rubini – Torino, 1979. Vive a Londra dove lavora come esperto di regolazione europea del mercato del gas naturale. È il papà di Kaia. In passato ha pubblicato: con Alessandro Fusacchia Niente di personale, Biliki (romanzo), con Alessandro Fusacchia Avvistamento di pesci rossi in Danimarca, Biliki (romanzo), Un dio di polvere, B&V Editori (romanzo), Dicono le cicogne, B&V Editori (romanzo), Parentesi, B&V Editori (racconti). È tra i fondatori di RENA.

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