La notte della mente umana: è negli anfratti meno esplorati del poeta che Giuliano Castigliego è sceso leggendo I canti orfici di Dino Campana.
(Dal 17 maggio, su betwyll e Twitter, giochiamo a #LaNotte riscrivendo il primo componimento dei Canti orfici di Dino Campana: ispirandosi a questa raccolta, Giuliano Castigliego ha scritto questo commento).
Negli androni dell’ex-Ospedale psichiatrico mentre facevo il servizio civile. Ho cominciato così a leggere I canti orfici. Non capivo nulla di disagio psichico, ancor meno del mio. Dietro le spalle l’ordine classificatorio dello studio di Medicina, intorno a me i contorni stravolti dalla malattia mentale di donne e uomini che avevano “il privilegio” di pulire gli uffici sotto lo sguardo di operatrici che agivano il loro proprio disagio in un controllo sadico dei pazienti “lavoratori”.
Mi sentivo in un incubo che non riuscivo a spiegare razionalmente. Intuivo che i versi, la prosa di Campana, tutt’altro che accattivante per me, poteva illuminare di fuochi improvvisi la mia oscurità. Bagliori i suoi ricordi, da quelli più teneri a quelli più strazianti, testimonianza di una sofferenza che da ansia diviene tormento e infine disperazione e sconfitta.
Oh! ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza
Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero
Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali…
Ricordi intrisi di dolore che hanno la consistenza evanescente ma anche la forza evocativa dei sogni. Sembra di sentire il Gerard de Nerval di Aurélia:
Ricordi e sogni si mescolano poi nella Notte con i miti (solari, barbari, di stragi, di orge) forse non molto diversi da quelli di cui scriveva Freud nello stesso anno (1913) nel suo Totem e Tabù. Se però in Freud le stesse orge e stragi sotto la rigorosa lente dell’indagine psicoanalitica trovano logica e ordinata spiegazione, in Campana i miti evocano forme scheletriche e emozioni disperate, che anche tutti gli amplessi non riescono a cancellare, anzi piuttosto accentuare. Che si tratti di ricordi, sogni, miti, dietro l’apparente e fuggevole splendore di cortigiane e ancelle, Campana scorge sempre “il panorama scheletrico del mondo”. I baci della “fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi!” si rivelano vani, gli amanti “a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa”. Ogni possibile incontro d’amore diviene consapevolezza della sua impossibilità, “vano sogno”. Rimane solo un “corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte”.
È la sua schizofrenia – che peraltro Vassalli non so quanto correttamente contesta – a far (sempre) vedere a Campana, dietro le “sfiorite rose della giovinezza” il “panorama scheletrico del mondo”? O non piuttosto la sua forza poetica? Non so rispondere (e non solo per mancanza di sufficienti conoscenze sulla malattia e sull’opera di Campana). Rinvio piuttosto alle parole con cui Eugenio Borgna, nel suo ultimo L’indicibile tenerezza, commenta il desiderio di Simone Weil di non mangiare perché in Francia e nel mondo si moriva, si continuava a morire di fame. Pur riconoscendo i rischi psicologici dell’identificazione eccessiva con la sofferenza altrui, Borgna scrive: “Non so, non lasciamoci trascinare dai pregiudizi di una psichiatria che in questa identificazione riconoscerebbe connotazioni patologiche e invece cogliamone la stremata umanità e i bagliori di una immensa inenarrabile capacità di immergersi nei mari sconfinati della sofferenza degli altri”.
Foto: Luca Rossato – Fiat Lux (Creative Commons).
Giuliano Castigliego (@giulicast) – Laureato in Medicina, specialista in Psichiatria e Psicoterapia, lavora come psichiatra e psicoterapeuta ad indirizzo analitico a Coira, Svizzera. Inoltre, è membro dell’Accademia Psicoanalitica della Svizzera Italiana e della società Balint Svizzera, oltre che formatore, supervisore e conduttore di gruppi Balint. Sul Sole24Ore scrive dei suoi Incontri di confine.
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