Primo Levi davanti all’assurdo

Caterina Frustagli ha interrogato i testi di Primo Levi con gli occhi di una psicologa attenta a dinamiche e processi di tipo psicologico ed educativo. A novembre parteciperà ai workshop su #LaTregua che realizzeremo nelle Case del Quartiere di Torino.

Peter Busse - Holocaust-Gedenkstätte

Avvicinarsi ad un autore come Primo Levi è un esercizio complesso; toccare le sue pagine spinge in primo luogo a un raccolto silenzio introspettivo. A prima vista è infatti difficile aggiungere qualcosa a parole che paiono definitive. In quanto lettori dobbiamo soltanto leggere il testo e leggere ciò che su esso è stato scritto, oppure possiamo e dobbiamo parlarne a nostra volta? E come?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prendere in considerazione due questioni importanti. La prima è relativa ad un dato di fatto: i sopravvissuti alla Shoah ancora in vita sono molto anziani, la loro fondamentale opera di testimonianza diretta è indubbiamente legata ad un limite temporale e quindi la questione che si pone è chi e come potrà continuare a tramandare le loro storie. È possibile pensare a nuove forme di divulgazione? Come queste nuove forme di divulgazione possono rimanere fedeli alla testimonianza di chi ha vissuto quella tragica esperienza? Le stesse domande devono essere poste anche per gli scritti di Primo Levi.

La seconda considerazione ha a che fare con l’appartenenza dei testi di Primo Levi, ma anche degli altri scrittori testimoni, al nostro patrimonio culturale. La nostra conoscenza, il nostro sapere infatti si costruiscono secondo dinamiche complesse: a livello personale, attraverso esperienze e filtri di tipo cognitivo, a livello gruppale, attraverso meccanismi di rappresentazione sociale. I sistemi educativi non possono prescindere dall’influenza che la storia e la memoria hanno sulla costruzione del sapere, perché è attraverso la strutturazione del sapere che avviene la formazione del Sė.

Considerando dunque queste premesse, la mia risposta alla vostra domanda è affermativa: sí, dobbiamo parlare a nostra volta delle opere di Levi, che, da sopravvissuto, sosteneva di avere la responsabilità di parlare “per conto terzi”, ovvero dando voce ai “sommersi”, coloro che non si sono salvati. Questa responsabilità in qualche modo tocca ora a noi. Non possiamo dire infatti “non c’ero, non mi riguarda”, perché la difesa della dignità umana riguarda tutti. In che modo ne possiamo parlare? Io credo che un buon modo sia quello di non porsi mai in modo dogmatico davanti alla realtà e dunque neanche davanti alle opere degli scrittori. Levi era un chimico, un uomo di scienza e quello che ha sempre chiesto ai suoi lettori non è un’adesione fideistica alle sue parole, quanto un’analisi attenta, rigorosa e critica. E dunque il più possibile dobbiamo leggere le opere letterarie, anche in contesti comunitari come nelle scuole o nelle diverse associazioni di promozione culturale e discuterne, mai smettendo di confrontarci e di co-costruire significati. Perché, ormai è assodato, un testo prende forma proprio in quanto non esaurisce l’universo della significazione, ma lascia uno spazio in cui è l’interpretazione del lettore ad animare le intenzioni comunicative di chi scrive e questa è una bella opportunità che noi abbiamo per non recepire passivamente le parole dello scrittore, ma dando loro corpo nelle nostre riflessioni e quindi mantenendole in vita.

Ne La tregua, insieme al contesto di un’Europa distrutta dalla guerra e colma di displaced persons in cerca della via del ritorno verso casa, si respira anche l’emozione del riaffiorare della vita. Ciò si riflette sul racconto, che perciò si differenzia profondamente da Se questo è un uomo, pur costituendone il seguito. Che cosa possiamo apprendere oggi da questo testo?

La tregua narra appunto del viaggio di ritorno a casa dei sopravvissuti ai lager. Se in Se questo è uomo Levi racconta la discesa dei prigionieri nell’inferno dei lager, in un’ottica che descrive la trasformazione da uomo a häftling (prigioniero), ne La tregua Levi descrive il processo inverso, ovvero quello attraverso il quale il prigioniero, liberandosi, riconquista la propria identità. Il viaggio descritto quindi non prevede solo un percorso geografico, ma anche psicologico ed esistenziale. I deportati, nel lager, vengono privati di tutto, fino all’essere identificati con un numero tatuato sul braccio: non hanno più nessun diritto e vengono trattati come sub umani. Ne La tregua si affrancano da questo regime disumano per tornare alla vita. Proprio per questo processo di liberazione e di riconquista della propria identità ed umanità, questo testo è utile perché numerose sono ancora, oggi, seppur diverse, le condizioni di prigionia ed alienazione in cui versano molte persone e questo testo, pur nella malinconia struggente che lo caratterizza, alimenta magistralmente la speranza che si possa liberarsi da catene e, fuor dalla metafora, da situazioni alienanti e disumane di schiavitù.

Nel suo saggio, Primo Levi davanti all’assurdo (Tra Le Righe Libri, 2016), lei affronta il linguaggio dell’autore da un punto di vista che non è quello della critica letteraria, cui in ogni caso il saggio si riferisce, bensì dal punto di vista dello psicologo che si chiede perché la parola letteraria abbia ancora un valore pedagogico. Quanto è importante la mediazione critica sotto questo punto di vista?

Caterina Frustagli - Primo Levi davanti all'assurdoLa mediazione critica è uno strumento imprescindibile, a mio avviso, di analisi del testo letterario. Il testo letterario infatti, per sua natura, espone dei contenuti che sono inscindibili rispetto alla forma che li veicola. Questo significa che l’importanza di questo tipo di scrittura, non risiede solo nel che cosa viene detto, ma anche nel come. La forma stilistica in cui l’autore si esprime conferisce alla sua scrittura alcune caratteristiche peculiari che la distinguono da altre. La Letteratura è una forma artistica e per studiarla in modo rigoroso come si diceva prima, anche da un’ottica psicopedagogica, serve saperne decifrare il linguaggio. Io che mi occupo di Psicologia e Pedagogia ho scoperto, proprio attraverso la mediazione critica, che le parole di Levi risultano così potenti, anche perché si avvalgono di artefici retorici come la preterizione (l’affermare qualcosa attraverso una negazione) e di nuove forme di narrazione come la rammemorazione, ovvero l’integrazione tra la descrizione storica degli eventi e l’invenzione narrativa. Il narratore riscrive la propria storia, filtrandola attraverso espedienti linguistici e stilistici e questo fa sì che l’esperienza del singolo essere umano rappresenti qualcosa di universale in cui chiunque si possa rispecchiare, perché appunto attraverso la parola letteraria si trascende l’esperienza personale del personaggio. Ma ci è possibile riflettere su questi aspetti solo rifacendoci all’analisi critica degli studiosi del testo.

Il viaggio che Primo Levi compie ne La tregua è un viaggio di ritorno a casa, dopo le atrocità vissute ad Auschwitz. Il viaggio che i migranti e i rifugiati di oggi compiono per venire in Europa è diverso: molti di loro fuggono dalla guerra e da una casa che non esiste più, non sapendo se vi faranno ritorno. Ha senso, allora, leggere La tregua per riflettere su questo fenomeno? E perché?

Deportati e migranti condividono il bisogno di ritrovare condizioni di vita umane ed il viaggio rappresenta per entrambi la possibilità di rispondere a questo bisogno. Il giovane chimico Primo Levi ed i suoi compagni, peregrini in un’Europa sconvolta dalla guerra, affamati e stremati, sognano di “tornare; mangiare; raccontare”. Penso alle condizioni estreme che caratterizzano il viaggio di un migrante: l’indebitamento per partire, il rischio costante di morire o di veder morire i propri cari, il sopravvivere a fame e sete, per giorni, sulle carrette del mare e il rischio di essere fermati ad ogni tappa e rispediti nell’inferno della guerra o comunque della povertà estrema. Leggere testi come La tregua ci consente di empatizzare, cioè metterci nei panni di chi intraprende un simile viaggio e, magari, di provare sentimenti diversi dall’odio e reazioni diverse dall’espulsività, recuperando invece quel sentimento di pietas con cui Levi descriveva i personaggi, resi “scaleni e difettivi” dalle tragedie affrontate. Perché un altro denominatore comune, tra deportati e migranti, è proprio la sperimentazione del trauma (seppur di diverso tipo), inteso come una condizione di estrema sofferenza psicofisica in risposta ad un evento stressogeno. Certo, si dirà, i migranti “scelgono”, a differenza dei deportati, di partire. Ma, se consideriamo fame e guerra, quanto questa scelta è libera e non condizionata? Leggere La tregua ci aiuta a riflettere, ma anche a “sentire” i vissuti emotivi di chi viaggia verso la speranza.

Foto: Peter Busse – Holocaust-Gedenkstätte (creative commons)

Caterina FrustagliCaterina Frustagli è nata a Bollate nel 1976. È una psicologa ed un’insegnante della Scuola Primaria. Lavora con bambini, adolescenti ed adulti provando ad accompagnarli in percorsi di crescita. Si occupa inoltre di contribuire alla formazione di futuri insegnanti, conducendo laboratori universitari presso l’Università Cattolica di Milano. Con il progetto “La parola rende liberi” ha guidato un gruppo di detenuti del carcere milanese di San Vittore in un percorso di alfabetizzazione letteraria. Utilizza la parola come strumento di lavoro d’elezione, ritenendola ancora il mezzo più potente per cambiare se stessi e il mondo.

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