La memoria è una catasta di legna

Diritti umani, lotta alla povertà, politiche europee, gestione dei conflitti. Tutti temi centrali nella risposta alle sfide attuali, crisi dei migranti in primis. Ne parliamo con Daniele Scaglione, che coinvolgeremo in uno dei workshop dedicati a #LaTregua.

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Nella tua vita ti sei occupato a lungo di diritti umani e di lotta alla povertà, da attivista, da comunicatore, da scrittore. Due temi profondamente interconnessi da cui non si può prescindere nella risposta alle sfide globali di oggi, ma che raramente ricevono il giusto spazio e approfondimento nel dibattito pubblico. Che differenza potrebbe fare invece partire da questo?

Credo ci aiuterebbe a uscire da una situazione assurda: quella di chi ha l’acqua sul pavimento di casa ma, anziché andare a cercare la perdita, prova ad asciugare le piastrelle bagnate con un singolo fazzoletto di carta. Nel dibattito che coinvolge media e politici sembra che le posizioni siano due: quelle dei cuori teneri che accoglierebbero chiunque e quella di chi vuole la linea dura. Io penso invece che la distinzione sia tra chi cerca di capire cosa sta succedendo e chi propone soluzioni semplificatorie ma fasulle, siano quest’ultime più o meno ‘dure’. Le persone che migrano in condizioni disperate lo fanno perché spinte da due cose: la violenza e la povertà. Eppure, noi europei per fermare la prima facciamo ben poco, per sradicare la seconda facciamo anche meno. I diritti umani non sono mai stati una priorità nella politica estera né dell’Unione Europea né dei suoi Stati principali. In quanto alla lotta alla povertà, sono ormai decenni che i paesi europei dicono di voler destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo all’aiuto allo sviluppo, ma al momento lo stanno facendo solo in cinque. Penso anche alla disponibilità dell’Europa a versare 1 miliardo di euro alla Turchia affinché ‘si tenga’ i profughi. Non è assurdo dare così tanti soldi a un regime che, peraltro, sappiamo da tempo violare sistematicamente i diritti umani? Non sarebbe meglio investirlo in aiuto pubblico allo sviluppo, quel miliardo?

Nella gestione della crisi dei migranti l’Europa sembra aver perso di vista i propri valori e la propria storia, rischiando quasi di peggiorare la situazione invece di risolverla. A tuo giudizio cosa sta rendendo fallimentari le politiche europee in materia di immigrazione e accoglienza?

I valori di cui stiamo parlando – e che sono contenuti in modo chiaro nello statuto dell’Unione e nei suoi più importanti documenti sui diritti umani – l’Europa li applica in minima parte. Il fallimento delle politiche europee, non solo su immigrazione e accoglienza, penso si spieghi in questo modo: l’Ue non è un organismo sovranazionale, è un’istituzione dove si cerca faticosamente un accordo, e quando lo si trova di solito è tramite gare al ribasso. Ad esempio, noi italiani ci lamentiamo perché l’Europa non ci aiuta abbastanza nella gestione dei migranti. Ma quando l’Europa ci ricorda che nell’aiuto pubblico allo sviluppo siamo parecchio indietro, facciamo finta di non sentire, quando le istituzioni continentali ci sgridano per la nostra arretratezza sui diritti civili o sulla laicità dello Stato, addirittura reagiamo con scandalo: l’Europa attacca la nostra cultura, le nostre tradizioni…

Tra i temi su cui lavori come formatore c’è la gestione dei conflitti. Nel contesto della crisi dei migranti, quali sono le dinamiche che rischiano di innescare potenziali conflitti con l’altro, lo straniero, e quali invece quelle che possono gettare le basi per il dialogo e l’integrazione?

Quello che succede in tema di migranti è da manuale dei conflitti. Politici deboli e con poche idee distolgono l’attenzione dalla loro dabbenaggine ingigantendo i problemi causati dai migranti. Di contro, almeno in teoria, non sarebbe difficile costruire le basi per il dialogo e l’integrazione: basterebbe far lavorare insieme le persone. Pensiamo a quanto lavoro c’è da fare, in Italia, sulla messa in sicurezza del territorio. O sulla pulizia delle città. Se a migranti e disoccupati italiani fosse data l’opportunità di avere un lavoro da fare insieme in questi settori, si costruirebbereo delle reti e delle relazioni importanti. È una cosa che hanno fatto anche in Rwanda, per aiutare a rimettere insieme un paese devastato dal genocidio. Certo, ci vorrebbero delle risorse, per far sì che questi lavori siano ben organizzati, dignitosi, seppur temporanei. Ci vorrebbero soldi, e magari li si potrebbero trovare smettendo di spenderli in strutture insensate e inefficaci come i centri di detenzione per migranti (oggi conosciuti con varie sigle, ma nati con la legge Turco/Napolitano con il nome di Centri di Permanenza Temporanea).

A novembre leggeremo e commenteremo insieme un brano tratto da “La Tregua” di Primo Levi. Qual è per te – che ti ci sei confrontato raccontando il genocidio in Rwanda – il ruolo della memoria?

È quello di una catasta di legna. La raccogli, la tagli, la metti bene in ordine, al riparo dall’umidità. Ma poi la usi, sennò hai lavorato per niente. Io temo che la memoria, in Italia, sia  frequentemente esercitata in modo celebrativo e poco pragmatico. Non voglio dire che le giornate della memoria non siano importanti, tutto il contrario: ma devono servirci a cambiare davvero, sennò sono inutili.

daniele scaglioneDaniele Scaglione (@diffrazioni) è nato a Torino nel 1967. È laureato in Fisica e si occupa di formazione. Ha lavorato cinque anni in Fiat, oltre venti nel nonprofit. È stato presidente di Amnesty International Italia. Ha scritto: Baghdad, Kabul, Belgrado. La democrazia va alla guerra (2003); Diritti in campo. Storie di calcio, libertà e diritti umani (2004); Centro permanenza temporanea vista stadio, romanzo (2008); Rwanda. Istruzioni per un genocidio (2010); La bicicletta che salverà il mondo (2011); con Françoise Kankindi, Rwanda. La cattiva memoria (2014); con Paolo Vergnani, Sopravvivere al conflitto, sul lavoro e nella vita (2015); Le storie che costellano il cielo (2015).

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