Quando il museo diventa attore sociale

Con Anna Chiara Cimoli, storica dell’arte e consulente museale che sarà con noi il 28 ottobre per il secondo dei workshop dedicati a #LaTregua, abbiamo parlato del ruolo sociale che i luoghi della cultura possono e devono svolgere nel contesto attuale, a partire dalla crisi dei rifugiati.

Musei_e_migrazioni

Nell’ambito del progetto europeo MeLa*-European Museums in an age of migrations ti sei occupata dei musei delle migrazioni e delle loro retoriche. L’obiettivo del progetto era individuare pratiche innovative attraverso le quali i musei possono contribuire alla coesione sociale e alla costruzione di un’identità europea inclusiva. Cosa hai scoperto attraverso questa ricerca? 

Nell’ambito di MeLa* ho potuto viaggiare e incontrare molti dei curatori, direttori, educatori che in questi anni si stanno concentrando sul tema della migrazione come fenomeno al contempo antichissimo e peculiare della nostra epoca. E ho sentito una certa resistenza, da parte dei musei europei, a gettarsi nella mischia, ad assumere la dimensione dell’attivismo. Attivismo, che, beninteso, non vuol dire necessariamente accoglienza fisica dei profughi, soluzione di loro problemi concreti, attività politica tout-court: i musei fanno cultura, e solo attraverso quella fanno politica (culturale). Buoni esempi di questo atteggiamento sono, secondo me, il MhiC di Barcellona e il Red Star Line di Anversa, che collocano le migrazioni storicamente, partendo dalla preistoria, ma senza dimenticare il presente: una delle retoriche più frequenti nei musei delle migrazioni, infatti, è quella veicolata dal ‘migration heritage tourism’, che relega l’emigrazione in un passato novecentesco da cui, implicitamente, crea una distanza definitiva.

Negli ultimi due-tre anni, direi, molti musei, soprattutto in ambito est-europeo e tedesco, si sono interrogati con maggiore forza sul loro ruolo, e ne sono nate mostre, workshops, attività educative che coinvolgono profughi o rifugiati e sono rivolte all’intera cittadinanza. Questo mi sembra un fenomeno da osservare con attenzione. I tempi sono propizi per una rilettura dell’istituzione museale come agente sociale, che deve diventare sempre più consapevole delle proprie responsabilità. Partire dall’educazione, ovvero valorizzare i progetti che nascono dall’area della mediazione, è forse la prima – e anche la più sostenibile – chiave per una maggiore accessibilità e rilevanza del museo nell’attuale panorama. Purtroppo in Italia, ma anche in molto altri paesi europei, mediazione, interpretazione, educazione sono relegate al ruolo di ancelle della curatela. Da tempo, con i miei colleghi museologi con cui mi confronto più spesso, andiamo proponendo una nuova alleanza fra i ruoli professionali, che va nutrita di grande consapevolezza e cultura.

Sul blog Museums and migrations, tu e Maria Vachlou di Acesso Cultura raccogliete una serie di contributi sulla migrazione e sulla crisi dei rifugiati, senza peraltro limitarvi alla dimensione museale. Qual è il focus che orienta questa vostra selezione e quali sono le esperienze più interessanti in cui vi siete imbattute?

Il blog nasce dal desiderio di tenere traccia di quella miriade di esperienze, piccole e grandi, che stanno fiorendo in tutto il mondo rispetto alla “refugee crisis” e, più in generale, alla migrazione. Mappiamo regolarmente le mostre legate a questi temi che ci sembrano più interessanti, cercando quando possibile di intervistarne i curatori, o invitandoli a scrivere, per offrire degli approfondimenti puntuali.

Come dicevo prima, inoltre, una delle chiavi che ci sta a cuore è l’educazione, che più correttamente intendiamo come mediazione. Per questo, diamo ampio spazio a esperienze di storytelling, oralità, incontro personale, messa in circolo di storie, anche a livello informale. Ci interessano in particolare quelle proposte che non vedono i rifugiati da una parte e ‘tutti gli altri’ ad ascoltare, ma quelle che mescolano i contenuti a partire da vissuti e da quadri comuni, riferiti per esempio ai concetti di identità, appartenenza, mobilità.

Un’altra chiave è quella della performance, della danza, del teatro, dell’improvvisazione: il ruolo del corpo al museo è spesso trascurato, e ci sembra invece importante ribadirne la centralità, in una logica di rilettura dell’ ‘alto’ e del ‘basso’, di cura dell’empatia (parola forse un po’ abusata, ma non ne trovo una migliore), di rispecchiamento personale. Non parlo di ‘miracolo dell’incontro’, di stupore, di emozione, tutte categorie che secondo me lasciano il tempo che trovano se non inserite in una cornice di senso più ampia. Parlo di musei che mettono al centro le persone, dunque anche i loro corpi, le loro voci, le loro insicurezze e traiettorie incerte. Penso, in questo senso, agli stimoli che si possono trarre da esperienze come gli Asylum Dialogues del Greenbelt Festival o al progetto libanese The Caravan.

Cerchiamo sempre di valorizzare le esperienze che legano il museo al suo contesto, alla città o comunque al territorio, in un tentativo di abbattere quella frattura dentro/fuori che tanto ha penalizzato il “museo-tempio” di cui parlava Duncan Cameron: un buon esempio è il progetto London Stories Made by Migrants del BAC Moving Museum di Londra.

Tra giugno e novembre 2015, e ancora nell’estate 2016, la Fondazione Memoriale della Shoah e la Comunità di Sant’Egidio di Milano hanno accolto circa 5.000 profughi nei sotterranei del binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da dove partivano i treni per Auschwitz. Tu hai vissuto quest’esperienza in prima persona, come racconti in due tuoi articoli (2015; 2016): quale ruolo possono svolgere i luoghi della memoria (e la memoria in senso più generale) in un contesto come quello dell’attuale crisi dei rifugiati?

Simbolicamente un ruolo importantissimo, perché dicono una volta per tutte che la memoria non è una retorica, un accessorio nel bagaglio di persone che hanno studiato la storia e ripetono il mantra del ‘never again’, ma una leva potente per l’azione. Concretamente, poi, un ruolo davvero cruciale, perché permette a tante famiglie, minori non accompagnati, persone stravolte dal viaggio di mangiare, lavarsi, cambiarsi, dormire in un ambiente pulito e curato. L’esperienza del Memoriale, nata su due piedi per rispondere all’urgenza degli arrivi, ha coagulato nel tempo tantissime forze della società civile, ha coinvolto scuole e gruppi informali, ha visto lavorare fianco a fianco cristiani, musulmani, buddisti e non credenti, ha rivelato una volontà di reazione, a livello cittadino, davvero unica. Molti cittadini arabofoni si sono messi a disposizione, come volontari, per accompagnare e accogliere i profughi: in un luogo come questo, dedicato alla memoria della Shoah, è un gesto di civiltà più eloquente di mille parole.

Sarebbe importante, penso, che il Memoriale rappresentasse questa esperienza, che la testimoniasse nei suoi spazi in forma di mostra o di videoinstallazione, proprio per ribadire che la memoria può essere un propulsore, un motore di azioni che ci vengono richieste dalla storia presente, senza reticenze. Noi, intanto, continuiamo a raccogliere  racconti, disegni, fotografie, perché ogni notte al Memoriale è un microcosmo di storie che vale la pena custodire e conservare.

Per ABCittà, una cooperativa milanese che promuove la progettazione partecipata in svariati ambiti, ti occupi di accessibilità ai luoghi di cultura. Quali sono le sfide maggiori in questo campo e quali i percorsi virtuosi?

Con Chiara Ciaccheri e altri colleghi da tempo lavoriamo nella direzione di una rilettura dei luoghi della cultura come spazi aperti, porosi, chiamati a re-impostare le loro priorità a partire dai pubblici. ABCittà ha iniziato a occuparsi di partecipazione più di vent’anni fa, quando il clima politico e culturale era molto diverso; e ha una lunga storia di azioni nelle periferie, nelle scuole, nelle case popolari, in contesti difficili. Lì ci siamo fatti le ossa, e continuiamo a lavorare cercando, nel possibile, di ribadire dinamicamente il perimetro del concetto di partecipazione, oggi tanto di moda e a volte cannibalizzato da esperienze un po’ improvvisate, che rischiano di non avere ricadute di lungo periodo fra le persone che a quella partecipazione si sono prestate. E’ un tema delicato, su cui ci interroghiamo molto, anche per cercare di non cadere nelle retoriche che lo appesantiscono.

Per quanto riguarda l’ambito dei musei, abbiamo progettato attività educative con metodo interculturale fin dall’apertura del Museo del Novecento di Milano, con workshop di italiano per stranieri (anche rifugiati neoarrivati) e attività di empowerment rivolte a adolescenti a partire dal confronto con le opere astratte dal dopoguerra in poi. Offriamo, e portiamo in giro per l’Italia, corsi di formazione per operatori museali, come Fare partecipazione al museo. Abbiamo realizzato molte edizioni di Biblioteca Vivente, uno spazio di dialogo personale, vis-à-vis, intorno a preconcetti e pregiudizi (su temi come la malattia mentale, il carcere, la diversità culturale, la cultura rom e sinta), portandolo alla Casa di Reclusione di Bollate, in biblioteche rionali, al Museo del Novecento, al MUDEC, alle Gallerie d’Italia e in molti altri luoghi in tutta Italia.

Sotto l’egida di un’altra realtà indipendente, la libreria Spazio BK, io e Chiara Ciaccheri facciamo formazione sul tema delle didascalie, intese come luogo di riflessione sulla complessità dell’interpretazione e della comunicazione accessibile.

Nei giochi di TwLetteratura i lettori – in gran parte studenti di ogni ordine e grado – sono i veri protagonisti, in un percorso di fruizione attiva in cui sono essi stessi a co-produrre contenuti culturali. Nel progetto Che cosa vedi? ritroviamo una dinamica simile, applicata all’educazione museale. Di che cosa si tratta e qual è il valore aggiunto che questo tipo di partecipazione può offrire alle istituzioni culturali? 

Che cosa vedi? nasce da un bando del MIUR vinto da una scuola di Busto Arsizio, il liceo Daniele Crespi, per la progettazione di un’attività di educazione tra pari al Museo del Novecento di Milano. In sintesi, con un gruppo di ragazzi di terza liceo impegnati nell’alternanza scuola-lavoro abbiamo realizzato un kit (una cartella di cartone a vari scomparti dentro cui si trovano diversi materiali, sia testuali che oggettuali, progettata dalla designer Benedetta De Bartolomeis). Il kit ha l’obiettivo di facilitare la mediazione di alcune opere dal secondo dopoguerra in avanti.

La premessa di metodo è che il museo sia un luogo adatto, sicuro e ‘disponibile’ (nel migliore dei casi: e il  Museo del Novecento è uno di quelli) per una decontrattura dei ruoli, per un ribaltamento di posizioni in cui l’adulto o l’esperto è presente ma non cala dall’alto i suoi contenuti. Al contrario, qui l’adulto facilita il dialogo davanti all’opera, a partire da alcuni stimoli contenuti nel kit, ma facendo un passo indietro. Il tema del dialogo fra pari implica il ricorso a una pluralità di competenze che non sempre la scuola, intesa come luogo dell’apprendimento formale, riesce a far emergere e valorizzare: la capacità di esprimere il proprio punto di vista, la negoziazione, la sperimentazione, l’andirivieni fra sé e l’opera, l’ascolto attivo, il problem solving, e molto altro. C’è poi, di nuovo, lo spazio del corpo: l’osservazione lenta, la scelta del punto di vista, il sedersi (o sdraiarsi) a terra, la presa della parola in un contesto non giudicante. Dopo aver sperimentato questo percorso con i ragazzi la sento, forse ambiziosamente, come una piccola palestra di crescita personale, come un incontro non dogmatico ma dinamico con opere ‘difficili’: se ne esce un po’ più consapevoli. Non cambierà il mondo, ma è comunque uno spazio di libertà che mi auguro possa suggerire a tutti quelli che vi partecipano un’idea di museo come luogo di tutti, ma proprio di tutti, in cui la voce di ciascuno ha un peso e uno spazio.
Fatta salva la specificità del profilo di ogni istituzione culturale, penso che questo stesso sguardo, con un investimento speciale sugli adolescenti, possa davvero formare un pubblico più attrezzato e propositivo.

Foto: il disegno, realizzato da un minore egiziano non accompagnato, descrive il momento del salvataggio in mare ed è stato raccolto in occasione dell’accoglienza dei profughi al Memoriale della Shoah di Milano.

Anna Chiara CimoliAnna Chiara Cimoli (@anna_cimoli) è una storica dell’arte e consulente museale. Specializzata in museologia all’Ecole du Louvre, ha lavorato per dieci anni al Politecnico di Milano, e successivamente alla Fondazione Arnaldo Pomodoro e presso la casa editrice FMR-Art’è. Dal 2001 collabora con ABCittà-Officina del futuro, occupandosi di musei e inclusione sociale, con un accento sulla diversità culturale. Nell’ambito del progetto europeo MeLa*-European Museums in an age of migrations ha svolto una ricerca sui musei delle migrazioni e le loro retoriche. Ha curato diverse mostre dedicate al tema della rappresentazione dell’altro nel Mediterraneo, fra cui la mostra La memoria del mare: oggetti migranti nel Mediterraneo.

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