Con Antonio Damasco, direttore di Rete Italiana di Cultura Popolare e ospite dell’ultimo workshop dedicato a #LaTregua, parliamo di oralità, di memoria, di migranti e del ruolo che la cultura può avere nell’accrescere la creatività, il benessere, e la consapevolezza dei cittadini.
Le nostre strade si incontrano da tempo, in particolare grazie al lavoro che la Rete Italiana di Cultura Popolare svolge a Barni con Giulia Caminada. Dall’11 al 13 novembre a Torino si è svolta l’XI edizione del Festival Internazionale dell’Oralità Popolare. Di cosa si tratta? E perché nell’era della scrittura digitale possiamo guardare all’oralità come fonte di ispirazione e di apprendimento?
Op, come lo chiamiamo confidenzialmente compie undici anni, non è più un bambino. Gli anni delle ritualità, seppure inventate come un Festival, sono come quelle che si attribuiscono ai cani o ad altri animali. Pure il nome è improprio, figlio di una stagione di proliferazione di festival tematici: Festival dell’economia, filosofia, storia ecc… . In realtà è una vera e propria festa, dove le diverse “Antenne” o territori della penisola s’incontrano per scambiarsi buone pratiche e condividere idee e azioni. I temi di quest’anno sono stati per l’appunto “la reinvenzione delle comunità” e “il sapere degli altri”. Op esiste oggi perché si trasforma con la società: è cresciuta la coscienza che esistono una serie di saperi che non possono essere trasmessi con il solo utilizzo della scrittura. L’altro motivo, che si pone in dialogo proprio con TwLetteratura, è nel concetto di “oralità di ritorno”.
Basti leggere mail, chat e il modo in cui scriviamo quando utilizziamo proprio gli strumenti come Twitter, Facebook e altri social network. Noi scriviamo come parliamo, spesso inventando modalità di relazionarsi agli altri se non veri e propri alfabeti e neologismi, con una sorta di malinconia verso la fisicità della comunicazione (es. l’utilizzo spasmodico degli emoticon).
La Rete Italiana di Cultura Popolare ha sede nel Polo del ‘900, ai Quartieri Militari di Torino, nel palazzo juvarriano che dà vita alla memoria del secolo scorso attraverso gli istituti che, tra gli altri, curano gli scritti e il pensiero di uomini come Franco Antonicelli, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Primo Levi, Vera Nocentini, Gaetano Salvemini. Qual è il legame fra queste figure e la cultura popolare? E cosa state facendo concretamente per aprirne la memoria a chi vive o visita Torino?
Il rapporto con gli intellettuali e gli uomini che hanno abitato il ‘900 è imprescindibile per la natura stessa del pensiero del secolo breve, a partire dal continuo dialogo fra le “masse” e l’individuo e quindi le ritualità che ne sono derivate. Il Polo del ‘900 ha l’opportunità di inserire in un contesto organico il patrimonio che stiamo per lasciare a chi verrà dopo di noi, ma anche di restituire dignità a coloro che non hanno potuto scrivere la storia ma ne sono stati protagonisti. Questo ha una similitudine con il periodo che stiamo vivendo rispetto a quella parte di persone che continuano a restare ai margini dei grandi cambiamenti socio-culturali delle nostre città.
“Ecco i vecchi fratelli, / coi figli e il pane e formaggio!” scriveva Pasolini in “Alì dagli occhi azzurri”. Lo scorso anno hai scritto una fiaba dedicata ai migranti, traendo ispirazione dagli scogli di Ventimiglia. A distanza di un anno, “L’immaginifica storia di Espérer” si ripete. Perché i governi europei continuano a trasformarsi in fortezze chiuse anziché costruire insieme uno spazio davvero comune e nuovo dai confini aperti?
Perché le comunità del rancore sono più rumorose delle comunità dell’accoglienza, rigurgitano parole e odio con maggiore efficacia. La maggioranza della politica di oggi non riesce più ad avere l’autorevolezza che si dovrebbe attribuire a una leadership, trovandoci così ad avere una classe dirigente che insegue l’umore o i succhi gastrici non sempre virtuosi della pancia delle masse, piuttosto che pensare a una crescita dei cittadini per suggerire visioni diverse, coraggiose.
La Rete Italiana di Cultura Popolare è un esempio che incarna in modo forte il paradigma dell’audience development su cui l’Unione Europea punta per stimolare la creatività, la consapevolezza e il benessere stesso dei cittadini a partire dalla cultura e dal sapere. Quali sono gli ostacoli che incontra chi sceglie questo approccio? E perché, nonostante questi ostacoli, ha senso continuare a lavorare perché l’osmosi tra Cultura e cultura popolare sia costante?
Sono molto radicale su questo, avendo sempre operato in questa direzione, sia con la attività del Teatro delle Forme, che in maniera ancora più collegiale con la Rete Italiana di Cultura Popolare. Credo che non si debba neanche porre come alternativa, la cultura è un fatto sociale sempre, per definizione. Ha a che fare più con la sanità e con la prevenzione che con l’intrattenimento. Quindi il pubblico è un attore del dialogo altrimenti è inutile invitarlo alla grande tavola della cultura. Le parole e le azioni che abbiamo deciso di condividere saranno responsabili di quelle regole invisibili che solo la cultura può decidere di porre al centro dei nostri pensieri, di questo la classe dirigente, gli intellettuali, gli artisti e i formatori di ogni ordine e grado hanno una responsabilità storica. Il rapporto con la cultura popolare è ancora quello che i padri pensatori del ‘900 ponevano al centro delle loro riflessioni, a partire da Antonio Gramsci, fino a Pier Paolo Pasolini. Meno definibili le classi sociali, ma uguali i timori nel non tenere nella giusta attenzione coloro che vivono nelle periferie sociali delle nostre disomogenee “comunità”, vecchi o nuovi cittadini che siano.
Antonio Damasco nasce a Napoli, è attore, autore e regista teatrale. Dal 1995 è fondatore e direttore artistico del Teatro delle Forme; nel 2004 fonda, insieme a 4 Province e 2 Associazioni, il Comitato Festival delle Province, che si trasformerà nel 2007 nella Rete Italiana di Cultura Popolare, una rete culturale costituita da enti pubblici e privati, ormai giunti a più di 20, che opera per il recupero, la promozione e la valorizzazione della cultura e delle tradizioni popolari, dei territori a esse legate e dei modelli di socialità.